È un viaggio in una cartolina coloratissima, che amplifica le piccole cose di ogni giorno, evidenziandone gli aspetti più distorti, quello che invita a fare Martin Parr. Il fotografo inglese, al quale è dedicata la mostra ‘Short & Sweet’, visitabile al Museo Civico Archeologico sino al 6 gennaio è tornato a Bologna per la presentazione, avvenuta ieri al cinema Modernissimo, del documentario sul suo lavoro, ’I am Martin Parr’.
Signor Parr, come sceglie gli oggetti delle sue foto?
"Io sono un fotografo onnivoro, un continuo consumatore di immagini e di vite altrui. La scelta dipende semplicemente dalla capacità che un oggetto, una persona, hanno di raccontare una storia. Ogni scena è una possibile scoperta, credo che ovunque, nei risvolti di quello che abbiamo di fronte, ci siano spunti per una sceneggiatura per immagini. Basta non fermarsi alla superficie".
Lei sembra prediligere immagini di ordinaria quotidianità, come ad esempio la serie di foto su Brighton.
"Sì, Brighton è una località di villeggiatura sulla costa britannica, che è stata il centro della diffusione del turismo nella classe media inglese. È stata la prima volta che l’idea di vacanza, di evasione, diventava appannaggio di una fascia molto estesa della popolazione, non solo dei benestanti. E questo ha portato a uno sfruttamento in chiave turistica di ogni spazio, stravolgendo spesso l’identità dei luoghi. Ecco, è questo stravolgimento che mi affascina".
Come quello che evocano le foto delle vacanze a Belfast. Non proprio una città che abbiniamo all’idea di ‘vacanza’...
"Belfast è il caso più emblematico di questa ossessione globale per il turismo. Diciamo Belfast e ovviamente pensiamo a quelli che vengono definiti i ’troubles’, i problemi, eufemismo utilizzato per raccontare la guerra civile che ha insanguinato l’Irlanda del Nord. Proprio su quella terribile eredità, le autorità del luogo hanno sviluppato un turismo della guerra, percorsi nei posti delle bombe, trasformando in intrattenimento e ‘normalizzando’ una tragedia".
Perché questa costante presenza del turismo nel suo lavoro?
"Il viaggio per piacere è sicuramente il mio campo di indagine più ampio, quello con cui si identifica la grande maggioranza dei miei reportages. Sono completamente sedotto dall’idea stessa del ‘tempo libero’. È il momento nel quale le persone si sentono libere di essere loro stesse, fuori dagli obblighi del lavoro e della consuetudine. Mostrano il loro vero volto, tolgono la maschera e si lasciano andare. Ed è proprio quando sono in vacanza che esprimono un’autenticità a volte drammatica, che io cerco di fermare".
La realtà è sempre il punto di partenza.
"Sì, ma la mia realtà, quella che voglio trasmettere a chi guarda le mie foto è una realtà esagerata, il realismo diventa finzione, la mia lente lo stravolge esaltandone quelle componenti che a un primo sguardo ci sfuggono perché cancellate dall’ovvietà del primo piano".
Componenti che potremmo definire ‘sociali’?
"Non solo sociali, ma in alcuni aspetti parlerei di ‘fotografia politica’. Perché comunque lo sguardo è rivolto sulle persone e le mie foto evidenziano le derive culturali che la società prende. Prendiamo, tornando al tema del turismo, la perdita di identità delle città che hanno su di loro il peso delle grandi masse di visitatori e che diventano giganteschi supermarket. Raccontare questo cambiamento, che in Italia conoscete benissimo, penso a quello che avviene a Venezia e a Bologna, è un atto politico".
Tempo libero e cibo. Altro campo di indagine per il suo lavoro.
"Oggi si parla troppo di alimentazione e del suo valore, dell’alta cucina destinata a un pubblico elitario. Io amo l’estetica del cibo fatta di colori, vivaci, psichedelici, più reali del reale. Per questo fotografo solo il cibo spazzatura".