TOMMASO GUERINI*
Editoriale
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Intervenga il legislatore a stabilire i confini del femminicidio

Non era difficile prevedere che il processo a Giampaolo Amato avrebbe offerto numerosi spunti di dibattito.

Forse, però, non ci si aspettava che la prima polemica avrebbe riguardato la discussa questione del femminicidio, affrontata incidentalmente dalla Corte d’Assise, che non ha ammesso la costituzione di parte civile dell’Unione delle Donne Italiane.

L’ordinamento penale italiano non prevede uno specifico reato di femminicidio, del quale peraltro manca una definizione legale, anche a livello internazionale.

Per questo, ricorriamo alla definizione maggiormente diffusa in letteratura, che non qualifica come femminicidio qualsiasi assassinio di donna, nemmeno se perpetrato all’interno della famiglia, bensì l’omicidio di una donna per il fatto di essere una donna.

Così, rientrano nella nozione i casi di uccisione della partner infedele, percepita come ‘disubbidiente’ o magari della compagna o della moglie in procinto di lasciare un uomo violento.

Leggendo l’imputazione rivolta a Giampaolo Amato, si evince come i due delitti dei quali è accusato avrebbero avuto un movente comune: i motivi ereditari, l’ottenimento della piena disponibilità degli immobili dove risiedevano moglie e suocera, e “soprattutto” l’avere piena libertà nella relazione extraconiugale che aveva avviato.

La Procura sostiene quindi che le ragioni economiche sarebbero secondarie rispetto al desiderio di vivere liberamente una nuova relazione, che rappresenterebbe quindi la causa principale del duplice omicidio.

Dunque, come ha osservato Milli Virgilio, un omicidio maturato in una visione patriarcale, tale da integrare un femminicidio, inteso in senso ampio.

Invece, la Corte d’Assise ha ritenuto insufficiente per attribuire all’UDI la qualifica di persona offesa il fatto che si proceda per reati che hanno due donne come vittima, in quanto sarebbe stato necessario, per ritenere leso un interesse diretto dell’associazione, che tali delitti avessero leso l’autodeterminazione delle vittime, in un contesto di violenza discriminatoria e di genere, evidentemente ritenuto non evincibile dalla lettura dell’imputazione, di fatto negando natura di femminicidio ai reati per i quali si procede.

Da qui, lo strascico polemico, forse inevitabile quando si toccano temi sensibili come la violenza di genere, i quali meriterebbero un maggior grado di approfondimento in sede legislativa, anche per evitare di sovraccaricare processi penali già gravidi di complessità di aspetti ulteriori, che trascendono il dato tecnico e si collocano su un piano simbolico difficilmente conciliabile con l’esigenza di garantire a chi è accusato di crimini così gravi di essere giudicato senza pregiudizi.

*Professore ordinario di Diritto penale