"La storia di Ian Smith, il suprematista bianco nella Resistenza italiana"

Caro Carlino,

il nome di Ian Smith dice probabilmente poco a chi non ha i capelli bianchi o grigi. Io lo ricordo bene, come campione del suprematismo bianco e fautore dell’apartheid allorché proclamò unilateralmente l’indipendenza della Rhodesia. Messo al bando dal mondo intero, ottenne l’appoggio soltanto dei razzisti sudafricani e dei colonialisti portoghesi. Ian Smith, peraltro, era legato anche all’Italia perché partecipò alla Resistenza. Si arruolò infatti come volontario nelle truppe rhodesiane che combattevano al fianco dei britannici. Scelse l’aviazione e fu assegnato al 237º Squadrone RAF. Nell’aprile 1944, durante un’azione di guerra venne colpito dalla contraerea e fu costretto a lanciarsi sulle montagne del Savonese. Venne aiutato dalla popolazione locale a nascondersi in quanto braccato dai tedeschi e partecipò con i partigiani alla Resistenza, nella zona a cavallo tra Liguria e Piemonte agli ordini del capitano Lanza detto “Mingo”. Finita la guerra, concluse i suoi studi alla Rhodes University. Nel 1948 si sposò e si stabilì nella città natale di Selukwe, dove, acquistata una tenuta, si dedicò all’attività di proprietario terriero. Il resto è noto. Perché mi ha colpito la vicenda di Ian Smith? Perché ci insegna che la Storia (quella con la “Esse” maiuscola) ha emesso il suo verdetto stabilendo da che parte fosse la ragione. Ma le singole storie individuali possono raccontare ben altro e farci capire che è sbagliato giudicare le persone a seconda del campo di appartenenza. Riflettere sul fatto che fra i “liberatori” ci fossero anche soggetti come Ian Smith, certamente non molto titolato a combattere il razzismo hitleriano, dovrebbe indurci alla prudenza prima di emettere giudizi salomonici sulle singole persone che a volte (vedi il caso di Walter Chiari) non possono essere considerate dei criminali solo per il fatto di aver indossato la divisa “sbagliata”. Così come Francesco Moranino, condannato all’ergastolo da un tribunale della Repubblica Italiana e poi fuggito in Cecoslovacchia, non può essere considerato un galantuomo da ammirare per il solo fatto di essersi trovato dalla parte di chi ci ha liberato dal nazifascismo.

Mauro Marchetti