«L’opera mi ha rapito quando avevo due anni Io una diva? Scesa dal palco torno la Mirella»

Un lungo colloquio con la Freni nella sua casa piena di cimeli: «L’incontro artistico più importante è stato quello con Karajan»

Ho avuto la gioia di ascoltarla e applaudirla in giro per l’Europa, alla Staatsoper di Vienna, alla Salle Gaveau di Parigi la sera che le conferirono la Légion d’Honneur, o alla Scala di Milano, una volta perfino ‘imbucato’

all’ultimo momento per godermi la ‘Fedora’ che poi avrei ritrovato a Modena, con lei e Placido Domingo. Ma quel pomeriggio di primavera, pochi anni fa, Mirella Freni mi concesse un privilegio, mi aprì le porte della sua casa per raccontarsi al mio taccuino. Mi mostrò gli armadi dove custodiva gelosamente tutti gli abiti elegantissimi che aveva indossato negli innumerevoli galà della sua carriera, mi lasciò ammirare l’autografo di Giacomo Puccini appeso alle pareti, mi fece accomodare sul divano,

accanto alle foto dei suoi grandi amori, i genitori, la famiglia e Nicolai che con lei ha condiviso più di vent’anni di vita. Sempre amabilissima, con quel tocco di sana ironia geminiana («Dai, facciamo presto, che stasera gioca il Milan e voglio vedere la partita», esordì), si lasciò andare ai ricordi. La nostra conversazione fu lunga, piacevolissima e comparve poi sull’edizione italiana e internazionale del Messaggero di Sant’Antonio: oggi è bello e commovente ritrovarvi la voce e la storia di un’artista e di una donna davvero straordinaria.

Signora Freni, quando è nata in lei la passione per il canto?

«Già quando avevo due o tre anni, se la nonna ascoltava l’opera alla radio oppure da un disco io smettevo di giocare e correvo da lei. Dondolavo seguendo il ritmo. A cinque anni qualcuno mi chiese cosa volessi fare da grande e io risposi ‘La cantante d’opera’: mio padre mi diede uno scappellotto».

Però poi lei ha seguito il suo sogno...

«Sì, sentivo che sarebbe stata la mia vita. Uscivo da scuola e mi mettevo in fila al teatro Comunale con la nonna che mi portava in loggione e mi raccontava tutte le trame delle opere: le conosceva a memoria. Anche lei aveva una bella voce, ma non aveva potuto coltivarla: ha spronato me ad andare avanti».

Quali furono le difficoltà per iniziare?

«Eravamo una famiglia numerosa, il papà era partito per la guerra, la mamma lavorava alla Manifattura, ma il mio desiderio era cantare, sentivo che sarebbe stata la mia vita. E così da ragazzina mi sono arrangiata per poter prendere lezioni di canto: andavo anche a dare una mano a imbiancare le case. Al mio debutto al Comunale, la nonna fu la più felice: per lei era come se io avessi realizzato anche il suo sogno».

Cosa ha rappresentato il canto per lei?

«La gioia. Io non pensavo alla voce, non pensavo al successo, ma volevo davvero fare uscire quanto sentivo dentro, quello che potevo esprimere».

Qual è stato un incontro artistico importante?

«Sicuramente quello con Herbert von Karajan che alla Scala dirigeva la ‘Bohème’ con la regia di Franco Zeffirelli: Karajan non mi conosceva, mi incuteva soggezione. Un giorno, in palcoscenico, durante le prime prove, mi chiese di seguirlo in camerino: era arrivato il momento della sua temutissima audizione. Si mise al pianoforte, cantai, lo vidi impallidire e poi mi disse ‘Andiamo’. ‘Dove, maestro?’, gli chiesi. ‘Ma in teatro, no?’. Avevo superato l’esame. E’ stato un onore lavorare con lui per più di

vent’anni, e questo mi ha procurato anche qualche invidia».

E’ stata definita la primadonna meno primadonna di tutto il mondo della lirica. Si riconosce in questo ritratto?

«Vede, quando interpreto un’opera non sono più la Mirella, sono un personaggio, e lo faccio con gioia. Ma alla fine ritorno me stessa, figuriamoci se posso mettermi a fare la diva. Anzi, le dirò che ho sempre amato cucinare, mettere a tavola amici e familiari, lavare i piatti, e anche se dovevo prendere un aereo non partivo mai da casa senza aver riordinato il letto. Sono sempre stata così, e in questo mi sento molto emiliana».

E Pavarotti?

«Con Lucianone siamo cresciuti insieme. Siamo nati a pochi mesi di distanza, e le nostre mamme lavoravano gomito a gomito alla Manifattura: qualcuno dice che una balia dava il latte a entrambi, ma è più che altro una simpatica leggenda. Di sicuro abbiamo fatto molta strada insieme, andavamo anche a lezione dal maestro Campogalliani a Mantova. Luciano guidava un’auto scassata e tante volte mi toccava spingerla per farla ripartire. Luciano diceva sempre che io e lui eravamo come fratello e sorella, ed è proprio vero».

Qual è il personaggio che le è rimasto nel cuore?

«Mimì della ‘Bohème’; è il ruolo a cui mi sento più affezionata. Ma ho amato tantissimo anche Fedora, un ruolo che non avrei mai pensato di interpretare, e le altre eroine che ho portato in scena negli anni più recenti, come Tatiana nell’Eugenio Onegin: ho dovuto studiare il russo per cantare quell’opera, ci ho messo anima e cuore».

Come ha deciso di lasciare la ribalta?

«Nel 2005, per il 50° di carriera, ho interpretato ‘La Pulzella d’Orleans’ di Ciajkovskij a Washington: è stata l’ultima opera completa che ho eseguito in teatro. Una mattina mi sono guardata allo specchio e mi sono detta ‘Non fare l’egoista’: ho avuto tanto, tutto, era arrivato il momento di dedicarsi sempre più ai giovani».

Cosa chiede ai suoi allievi?

«Grande impegno, grande serietà. Devono imparare a liberare la loro voce, e devono studiare, studiare sempre. E poi insegno loro a condividere: anche noi, cantanti affermati, ci siamo sempre aiutati in palcoscenico».

E fra i suoi allievi, vede una futura Mirella Freni?

«Non ci voglio neppure pensare. Ognuno di loro deve avere la sua personalità, ed esprimere quello che sta vivendo. Se c’è talento, il resto viene da sé».

Le manca il palcoscenico?

«No, perché in realtà ce l’ho ancora. Ho i ‘miei’ ragazzi, e molti di loro già hanno importanti scritture in teatri di tutto il mondo. Perché dovrei cercare ancora di andare alla ribalta, quando posso aiutare gli altri?»