Pesaro, l'agente aggredito in via Rossi: "Era una furia, voleva la mia pistola"

Giuseppe Sepede e il placcaggio del nigeriano: "Mi ha chiesto scusa"

La violenta aggressione in via Rossi

La violenta aggressione in via Rossi

Pesaro, 6 settembre 2019 - Lui è Giuseppe Sepede, 42 anni, da 23 in strada con la divisa della polizia. Come l’altro ieri, quando in via Rossi ha fermato per un controllo un giovane nigeriano: «Stavamo dietro a degli spacciatori – racconta al telefono Sepede, in convalescenza ora per 45 giorni a causa di una frattura ad una costola e per problemi ai legamenti di un ginocchio dovuti alla colluttazione – vediamo arrivare questo ragazzo in bicicletta. Gli dico di fermarsi per un controllo. Non si ferma, anzi fugge. Gli andiamo dietro e lo blocchiamo. Parla in inglese, gli rispondo in inglese dicendogli di stare calmo che non succede niente. Si agita, sbuffa, scende dalla bici e mi sferra un pugno cercando di colpirmi in faccia. Riesco a schivarlo ma il secondo pugno me lo dà alle costole e sento netto il crac dell’osso che si rompe. Lo getto a terra, ma lui mi prende a morsi e cerca di sfilarmi la pistola rompendomi anche la fondina. E’ incontenibile. Il mio collega cerca di bloccargli le mani ma lui mi morde le cosce. Urlo di dolore».

«Prendo lo spray al peperoncino – dice – e lo uso per calmarlo dopo esser riuscito a sventare il tentativo di prendermi la pistola. Lo portiamo in questura per arrestarlo. Dopo un po’, lo rivedo seduto in un angolo, e gli dico se vuole una bottiglietta d’acqua. Mi guarda e dice sì. Poi mi chiede scusa per quello che ha fatto. Ha vent’anni, è arrivato dalla Nigeria, prima stava a Firenze poi da qualche mese è arrivato qui a Fano dove ha la famiglia. E’ un richiedente asilo. Gli ho risposto che le scuse le accetto ma a metà: ‘Voglio vedere come ti comporterai in futuro. Se torni ad aggredire vuol dire che non hai capito niente e che le tue parole non valgono niente’. Ci ha risposto che ha capito l’errore tornando a chiedere scusa».

Poi Giuseppe Sepede è ricorso alle cure del pronto soccorso per la frattura della costola e il ginocchio acciaccato dai calci. Ora è a casa: «Io lo so che corriamo dei rischi ogni volta che fermiamo qualcuno per chiedere i documenti – dice – ma il nostro mestiere è come una seconda pelle. Lo fai per una passione sfrenata. Sai di svolgere un lavoro in favore del cittadino che subisce una violenza o un torto. Il rammarico spesso è perché non siamo considerati per il lavoro e i rischi che corriamo. Ma questo non significa che rinunciamo ad un grammo di impegno. Ci mancherebbe altro. Amiamo il nostro lavoro e portiamo volentieri a casa anche le cicatrici perché sappiamo che fanno parte del gioco. Se posso aggiungere, con me c’è una squadra di colleghi di prim’ordine che lavora 24 ore al giorno per tenere sicura questa città che tutti noi amiamo e dove abbiamo deciso di far crescere i nostri figli. Quindi, ci fa piacere ovviamente quando riusciamo a riportare un sorriso a qualcuno, a risolvere un problema familiare o a disinnescare un possibile litigio o peggio, e siamo consapevoli di non dover sottovalutare niente di quello che ci circonda. Qualche cerotto ogni tanto non ci spaventa perché sappiamo che non è stato inutile».