La lingua italiana e l’esempio di Dante

Antonio Patuelli scrive che, per onorare Dante Alighieri (morto nel 1321), "non bastano importanti iniziative, ma occorrono anche maggiori sforzi di proprietà di linguaggio" (QNCarlino, 23 febbraio, p. 2). Ed è vero, poiché la lingua italiana è la principale eredità dantesca. Pertanto bisogna curare meglio la "proprietà di linguaggio". Ciò significa non soltanto evitare parole ed espressioni straniere che a causa della pandemia si sono diffuse in maniera oscena (non è esagerato parlare di "maniera oscena": c’è infatti una conduttrice televisiva che sembra in orgasmo quando pronuncia locuzioni inglesi come "recovery fund"); ma anche e soprattutto scrivere in maniera concisa, cioè stringata, senza tante sbavature nelle quali incorrono scrittori di vario genere. Non è difficile citare esempi di codeste sbavature; ma ci sono giornalisti così presuntuosi che si sentirebbero offesi se uno riferisse alcune loro improprietà linguistiche, simili alla recente scemenza "cambio di passo", espressione forse adatta ad una scuola di ballo. Ma torniamo a Dante e alla sua lingua. È diffusa opinione che questo poeta stia a cuore a molti italiani. Opinione da smentire o da attenuare: in una intervista (pubblicata su "Robinson", supplemento de "la Repubblica", 24 dicembre 2020, pp. 36-37), Gennaro Sasso ha detto: "Dante è uscito dagli interessi della cosiddetta borghesia cólta. Dalla cultura italiana. E non basta un anniversario a rinnovarne l’interesse". Lo studioso ha poi affermato: "Accanto alla vena poetica di Dante c’è una cosa che sbalordisce chi lo legge: la sua lingua. Straordinario per come la maneggia, per la capacità di sintesi". Tale "capacità di sintesi", che spesso manca alla prosa italiana specie giornalistica, è dunque il primo insegnamento che tutti dovremmo trarre dalla "Divina Commedia".

Vittorio Ciarrocchi