Perché il Pd non candida Ivano Dionigi?

Roberto

Fiaccarini

La direzione provinciale del Pd di giovedì sera ha confermato, semmai ce ne fosse bisogno, che il partito è sempre più a trazione ricciana. Un monocolore ricciano, verrebbe da dire. Non perché i nomi proposti per la candidatura alle Politiche siano tutti emanazione del sindaco, ci mancherebbe. Ma perché nelle dinamiche più significative si scorge chiaramente la mano di Ricci, per esempio nella scelta di inserire il vicesindaco Daniele Vimini nel lotto dei papabili, una mossa che da un lato contribuisce a lasciare fuori dalla porta l’ex governatore Luca Ceriscioli e dall’altra a mettere pressione ad Andrea Biancani, chiamato a mettersi in gioco nel collegio della Camera, uno di quelli ritenuti incerti ma comunque ad alto rischio di sconfitta.

Siccome il Pd pesarese non va fuori dall’orto di Ricci, proviamo ad andare noi fuori dal seminato: perché non candidare uno come Ivano Dionigi? Per un partito che cercava e ora fa fatica a trovare il cosiddetto campo largo, cioè un’alleanza ampia in grado di frenare il centrodestra, Dionigi è un campo largo vivente, una personalità che parla al mondo cattolico e a quello progressista con la stessa autorevolezza. Per un partito che dice di voler combattere i populismi, Dionigi è garanzia di sostanza, credibilità e capacità di visione. L’ex rettore dell’Università di Bologna è pesarese due volte, una di nascita e una per cittadinanza onoraria; politicamente, tra l’altro, è stato a lungo consigliere comunale proprio a Bologna da indipendente ma in quota Pd. Uno che lo conosce meglio di tanti altri ci diceva l’altro giorno che ha almeno un difetto per la politica di questi tempi: non scalda i cuori. Ma in fondo di gente che scalda i cuori e raffredda le teste ne abbiamo abbastanza.

Nessuno garantisce che accetterrebbe, ma perché non provarci?