Lo storico: "La Banda Grossi del film è trasfigurata"

Riccardo Paolo Uguccioni, coautore del libro che ha ispirato la pellicola, critica alcune scelte della sceneggiatura. Ma promuove comunque il film

Urbino, 20 settembre 2018 - Messaggio ai posteri: la Banda Grossi che imperversò nella nostra provincia, era come quella che si vede nel bel film di Claudio Ripalti, che ho visto in anteprima al cinema giorni fa? La risposta è: non del tutto. Ho visto un film, un storia liberamente tratta dagli eventi di cui mi sono occupato (poi sfociati nel volume Vera storia della banda Grossi di Massimo Monsagrati, Riccardo Paolo Uguccioni, Flaminia ed., Pesaro 1983) e non un documentario.

Questa è la premessa che è doveroso scrivere, visto che con Monsagrati me ne occupai così a lungo tanto da ispirare poi fumetti, altre storie e persino questo film. Ho visto con attenzione il film con Camillo Ciorciaro, Roberto Marinelli, Leonardo Ventura, Rosario Di Giovanna, Christian Marletta, Mateo Çili e Manuel D’Amario. E’ un lungometraggio elegantemente condotto, con tratti romantici e altri violenti, trucido quanto basta a sottolineare la natura tutt’altro che giocosa del brigantaggio (stile Robin Hood hollywoodiano, per intenderci). Il film è interamente girato nella provincia di Pesaro e Urbino, tra paesaggi che a volte si identificano non senza emozione e dove le vicende di quel gruppo brigantile si sviluppò dopo l’unità nazionale, sullo sfondo del passaggio dal dominio pontificio al governo dei “Piemontesi”. Verso quest’ultimo Terenzio Grossi provò rancore, senza bisogno di elaborare una teoria legittimista; il fastidio che le campagne sentivano verso il regno d’Italia lo fece guardare con simpatia da tanti campagnoli.

Va subito dunque chiarito che si tratta di una fiction, non di una docu-fiction: è cioè un lavoro che si ispira liberamente a precedenti studi su quei banditi, poi li rielabora ricomponendo quelle vicende secondo esigenze di copione, ovvero semplificando, aggiungendo, omettendo. Al cinema è lecito, in un saggio storico no. Il cinema è un’arte fondata sulla «sospensione dell’incredulità», quando nei titoli compare “basato su una storia realmente accaduta” di solito si burlano di noi. Tutti abbiamo visto e rivisto Amadeus, il bellissimo film diretto nel 1984 da Miloš Forman, e non ci disturba sapere che non fu affatto Antonio Salieri a commissionare a Mozart la scrittura del Requiem, come quel film invece adombra. Né Hitler muore come narra Bastardi senza gloria, diretto nel 2009 da Quentin Tarantino, e gli esempi potrebbero continuare. La banda Grossi è un caso analogo. Il film si ispira alle vicende di Terenzio Grossi e dei suoi seguaci all’indomani della battaglia di Castelfidardo, poi le reinterpreta come crede, le mescola e a volte le reinventa. Lo fa bene, però.

INTERPRETI Da sinistra Terenzio Grossi (Camillio Ciorciaro); Sante Frontini (Rosario  Di Giovanna); Biagio Olmeda (Manuel D’AmarioIL REGISTA E LO STORICO Claudio Ripalti e Riccardo Paolo Uguccioni
INTERPRETI Da sinistra Terenzio Grossi (Camillio Ciorciaro); Sante Frontini (Rosario Di Giovanna); Biagio Olmeda (Manuel D’AmarioIL REGISTA E LO STORICO Claudio Ripalti e Riccardo Paolo Uguccioni

Da sinistra, Claudio Ripalti e Riccardo Paolo Uguccioni

La fotografia è perfetta, lascia nella memoria una serie di bellissime scene di interni e di paesaggi appenninici. Le recitazioni sono intense, i personaggi sono una serie di quadri: accurato ed elegante è Giuseppe Alunni detto Pajno; violento e irrazionale Sante Frontini; Terenzio Grossi appare sullo schermo come emerge da tante descrizioni di contemporanei, e assieme a Olinto Venturi qui ha tratti di malinconia e il presagio della fine; forse la sceneggiatura caratterizza troppo come cinico il prefetto Giulio de Rolland (poi senatore del Regno, le cui spoglie riposano nel cimitero di Roncosambaccio perché sposò la fanese Giulia Ferri); belle le marce della “compagnia Grossi” su paesaggi alpestri e incantevoli (quei briganti erano davvero capaci di marciare per decine di chilometri verso obiettivi individuati due valli più in là).

Commovente l’addio di un brigante, che salutando il “capitano” si congeda, e anzi ne viene congedato, cioè messo in salvo prima della fine. Sono ben descritte le armi ad avancarica, fucili e pistole a capsula che sparato l’unico colpo dovete ricaricare di furia e laboriosamente, per anticipare – se ce la fate – il nemico. Il regista aveva davanti a sé l’insidia del paesaggio agrario che è molto mutato nel secondo dopoguerra (allora era scandito da fittissime strisce di terra separate da filari di vite coniugata, oggi presenta campi larghi, funzionali all’agricoltura meccanizzata); e anche le colture sono cambiate. Lo ha evitato utilizzando per sfondi boschi, strade bianche e bellissime alture montane. Un film da vedere, insomma.