Mecnavi, la tragedia di chi muore E quella di chi resta

di Paolo Casadio

Quel venerdì 13 marzo 1987 ero in via Grado, a casa di mia madre. Ricordo molto bene l’improvviso ululare delle sirene, il continuo, disperato passaggio di ambulanze e mezzi dei vigili del fuoco per via Trieste. E ricordo anche la sensazione immediata che fosse accaduto qualcosa di terribile. Nel giro di poche ore la notizia cortocircuitò radio e televisioni, portando alla ribalta nazionale Ravenna, il suo porto e la sconosciuta ditta Mecnavi. Mano a mano che si estraevano i poveri corpi degli operai deceduti dalle viscere della motonave Elisabetta Montanari, il loro numero denunciava l’enormità del tragico incidente. La memoria mi andò a quando, per un brevissimo periodo – volevo acquistarmi il famoso “quarantotto” - lavorai al porto in un bacino di carenaggio, probabilmente lo stesso. Si trattava di scrostare l’intero scafo delle imbarcazioni ricoverate e provvedere alla loro riverniciatura: un lavoro dannato e mai pagato tra polveri salate, schegge di mitili e il latrare continuo del capetto che ci spronava a essere più veloci, a correre.

La successiva inchiesta mise alla luce tutte le carenze e le omissioni del cantiere Mecnavi, incluso il sistema di caporalato che gestiva il reclutamento della manodopera: tra le altre la mancanza di estintori, la disorganizzazione del cantiere, la presenza di operai in nero. A leggere oggi nulla di nuovo, purtroppo. Tra i tredici morti, quasi per beffa del destino a pochi mesi dalla pensione, c’era il padre di Massimo Padua, che avrei conosciuto molto più avanti per via della sua casa editrice Voras. Quel giorno Massimo, quattordicenne, era proprio a Marina. Giocava a pallavolo nel campo di calcetto dell’oratorio e iniziò a intuire qualcosa dalle domande che gli altri ragazzi cominciarono a rivolgergli, curiosità del tipo "ma il tuo papà lavora alla Mecnavi?". Perdere un genitore è sempre doloroso, nell’età giovane ancor di più. Penso che questa inattesa morte, priva della preparazione al peggio che una malattia può dare, abbia contribuito non poco a segnare il carattere di Massimo verso sensibilità forti che oggi dirompono nella scrittura, nell’espressionismo pittorico e materico. Le tragedie ricadono sulla vita dei familiari e ne segnano per sempre i contorni, le scelte, il vissuto. Tutte le tragedie hanno due tempi: quello del momento in cui accade e quell’altro, lungo, oscuro, dimenticato e sofferto, di chi resta.