Tentato omicidio Faenza, voleva avvelenare l'ex moglie. I pm: "Sventato delitto perfetto"

I Pm: "Fosse andato a termine il subdolo progetto dell’uomo, sarebbe stato impossibile risalire alla causa di morte della donna"

Il cartello apparso nel 2016 nella villa di via Pedre Genocchi, dopo l’uccisione di Giulia

Il cartello apparso nel 2016 nella villa di via Pedre Genocchi, dopo l’uccisione di Giulia

Faenza (Ravenna), 2 ottobre 2021 - "Anziché arrivare dopo che un fatto è stato commesso, questa volta siamo riusciti ad arrivare prima e ad evitare un femminicidio attuato con modalità particolarmente subdole e occulte" (VIDEO). Appare sollevata, il Pm Cristina D’Aniello. E certa del fatto che il Codice rosso da un lato, e la tempestività di intervento degli investigatori, dall’altro, abbiano salvato la vita a una giovane donna, da tempo vittima e in soggezione di un ex marito tratteggiato come padre-padrone. Proprio da donna, ancora prima che da magistrato, ha motivo di ritenere che "anni fa, quando non c’era il codice rosso, segnalando un fatto del genere probabilmente la signora non sarebbe stata creduta e sarebbe stata rimandata a casa".

Caffè al veleno, l'ex marito resta in carcere. Il giudice: "Ha mentito"

Riderendo l’indagine alla stampa, per un attimo il suo pensiero deve essere tornato alla sera del 18 settembre 2016. Era lei il magistrato di turno quella notte, quando nella villa spettrale di via Padre Genocchi fu trovato il corpo senza vita di una giovane donna. Era quello di Giulia Ballestri, mamma di tre figli, scomparsa da tre giorni. Il Pm D’Aniello riteneva impossibile che una madre avesse fatto perdere volontariamente le tracce, come il marito tentava di indicare.

Il sinistro presagio avrebbe trovato conferma di lì a poco. Eppure quella volta intervenire in tempo sarebbe stato impossibile, data l’assenza di denunce pregresse. Ora, la sensazione di aver sventato un piano diabolico, l’ennesimo femminicidio, è motivo di soddisfazione tra gli investigatori. "Per come prospettato, con queste somministrazioni occulte di anticoagulanti, che possono provocare emorragia cerebrale o ictus, ci saremmo trovati davanti a un omicidio perfetto, a una morte inspiegabile perché poi sarebbe stato impossibile individuarne le cause".

Da qui il plauso "al maresciallo della stazione carabinieri, cui la donna ormai disperata si è rivolta e che mai prima aveva denunciato soprusi e violenze, il quale ha colto immediatamente la gravità della situazione, ponendo in essere una sinergia con la Procura che ha permesso in intervenire in breve tempo, dare riscontro alle dichiarazioni della vittima e arrivare a una prova granitica, come richiede un provvedimento di fermo con misura cautelare del carcere".

In buona sostanza questa indagine è stata, spiega il Pm, "una corsa contro il tempo: sapevamo che la donna fosse in pericolo, dovevamo agire mettendola sotto protezione quanto prima, pur dovendo allo stesso tempo acquisire gli elementi di prova necessari a carico dell’uomo".

In buona sostanza, per dare conferma al fatto che l’ex marito cercasse di avvelenare la donna a suon di medicinali nel caffè, occorreva che le somministrazioni non cessassero di colpo, ma al tempo stesso non la si poteva esporre a un rischio eccessivo. Un aspetto, questo, che il procuratore capo facente funzione, Daniele Barberini, mette in particolare evidenza: "Sapevamo che proteggere la signora – spiega - avrebbe comportato il rischio di compromettere l’indagine. Si è trovato il giusto equilibrio tra la tutela e la raccolta di prove sufficienti. A volte passa l’idea che denunciare non serva a nulla – sottolinea il procuratore Barberini –, questa è invece la dimostrazione concreta dell’impegno che viene messo dalle forze dell’ordine per prevenire i femminicidi".

Il movente viene ricondotto a dissidi di natura economica, ma anche al rapporto di sudditanza psicologica con cui l’uomo avrebbe a lungo soggiogato la ex consorte, con la quale era ancora in stretto contatto per la presenza dei figli, e alla quale si avvicinava alternando metodi brutali ad altri più affabili, non ultimo servirle il caffè a tavola.

Decisivo, spiega il maggiore Claudio Martino, comandante del Nucleo investigativo dell’Arma di Ravenna, il fatto che la vittima "sia stata molto brava, dopo le prime sensazioni di malessere accusate dopo avere bevuto il caffè, a cercare di notare diversità nella composizione dello zucchero nella tazzina", anche perché l’indagato "aveva aumentato le dosi, c’è stata una escalation ed era necessario intervenire quanto prima".