Reggio Emilia, Don Artoni dopo l'arresto. "Nessuna minaccia, volevo aiutare il giudice"

Il religioso si difende. Incontro con la Beretti: "Sono andato da lei per conoscerla e invitarla dai ragazzi in comunità"

Don Ercole Artoni

Don Ercole Artoni

Reggio Emilia, 29 settembre 2018 - Cammina a fatica, avanzando passo dopo passo sotto braccio dell’avvocato Francesca Corsi. Per lei – figlia dell’indimenticato principe del foro Romano che ha assistito tante volte il «prete scomodo» – è come un nonno. Si vedono tutti gli 88 anni di don Ercole Artoni, ieri mattina in tribunale per l’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto per le presunte minacce rivolte alla giudice Cristina Beretti. Davanti al gip Luca Ramponi ha detto la sua verità. Quaranta minuti sotto torchio.

«Le mie parole sono state travisate». Ha esordito così. Per poi rispondere – faticando a parlare per le sue condizioni di salute precarie – a tutte le domande che hanno come nocciolo della questione il rapporto con Aldo Ruffini, 74 anni, in manette anche lui nella stessa vicenda. Si è detto estraneo alle accuse, contestate una ad una.

«No volevo minacciare la Beretti – ha spiegato – Ho voluto incontrarla tramite don Fortunato Monelli per conoscerla e invitarla a parlare coi miei ragazzi della comunità (la Papa Giovanni XXIII che fondà negli anni ’70 per recuperare i tossicodipendenti, ndr)». In quell’incontro, datato 18 dicembre 2017 – però avrebbe riferito le minacce incriminate: «Un detenuto di Aemilia mi ha detto di venire da lei e di dirle di stare molto attenta e soprattutto di stare lontana dalle finestre dell’ufficio». E poi ancora: «Dicono che sanno dove studia suo figlio».

Ma la legale Francesca Corsi precisa: «Come ha detto ai giudici, in quell’occasione, durante ben altro tipo di dialogo ha voluto riportare quelle parole perché era preoccupato. Non minacciarla. La sua indole è quella di aiutare. Ha solamente informato la Beretti di ciò che aveva sentito in carcere dai detenuti». Poi ha chiarito il rapporto con Ruffini. «Si conoscono da 40 anni perché c’è sempre stato un rapporto storico con la famiglia. È il loro sacerdote di fiducia. Perciò lui esercitava solamente il suo ruolo e la sua funzione di parroco. Può essere che Ruffini si sia sfogato con lui dei suoi problemi».

La frase però che incastrerebbe il don è quella pronunciata sempre alla Beretti: «Restituisca i beni sequestrati a Silvano Ferretti (zio della moglie di Ruffini, considerato uno dei prestanomi dello stesso Ruffini nei procedimenti di evasione fiscale che portarono al sequestro di 24 milioni di euro di cui 15 confiscati recentemente, ndr)». Don Artoni ha chiarito anche questo aspetto. «Non disconosce questa frase – spiegano i suoi avvocati – Ma l’ha detto non in modo minaccioso. Come già detto, frequentando la famiglia e lo stesso Ferretti, ha detto en passant che lo conosceva come una brava persona. Tutto qui». Don Artoni si sarebbe permesso anche in virtù «del suo rapporto storico con tanti magistrati in passato. Faceva parte del suo modo di fare e del suo ruolo di parroco avendo avuto a che fare con detenuti tossicodipendenti e quindi coi giudici».

Proprio come negli anni ’70 riuscì a liberare il giovane Alberto Finco (figlio di un imprenditore padovano) dai suoi sequestratori, consegnandolo all’allora procuratore capo Elio Bevilacqua. Vicenda che peraltro lo fece andare in carcere per reticenza. Oggi invece si trova ai domiciliari nella sua abitazione di Castelnovo Sotto. I suoi legali hanno chiesta la revoca e in subordine la revoca sia dell’obbligo di dimora nel Comune sia del divieto di comunicare. Deciderà il gip Antonella Marrone del tribunale di Ancona titolare dell’inchiesta perché di competenza per i reati nei confronti dei magistrati dell’Emilia-Romagna.