Grande Aracri cerca di screditare i pentiti

Francesco ha reso dichiarazioni spontanee nel corso del processo Grimilde: "Le loro affermazioni? Fate tutte le verifiche che volete"

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di Alessandra Codeluppi

Una pila di carte [accatastate sulla scrivania. Per due ore Francesco Grande Aracri ha reso dichiarazioni spontanee nel processo di ‘ndrangheta ‘Grimilde’ con rito ordinario, nel quale è imputato per associazione mafiosa. Il 68enne di Brescello, videocollegato dal carcere di Novara, ha proseguito la deposizione iniziata nella scorsa udienza, quando aveva esordito col botto: "Se questa Corte mi deve condannare perché mi chiamo Grande Aracri, allora sono colpevole". Ieri ha cercato di smentire i collaboratori di giustizia e gli investigatori della polizia di Stato, coordinati dal pm della Dda Beatrice Ronchi. Lui, già condannato per mafia nel processo ‘Edilpiovra’, ha preso le distanze dalla ‘ndrangheta. Ha detto lui stesso di aver aiutato talvolta le forze dell’ordine. E ha depositato documenti. "Un inquirente ha chiamato la mia piccola proprietà, frutto di quarant’anni di lavoro, ‘quartier generale’. Ma lì mai sono entrate persone maledette mafiose - dice sul quartiere di via Breda Vignazzi a Brescello, dove abitava e avevano sede le sue aziende -. In cinque anni di sorveglianza speciale sono stato controllato giorno e notte: ci sono le relazioni dei carabinieri". Passa in rassegna diversi punti. Come l’area del cavalcavia vicino alla sua azienda: "Si dice che me ne ero impossessato abusivamente, ma non è vero. Pagavo la fondiaria. Dal 1999, anno in cui fu costruita, non abbiamo mai ricevuto solleciti per non accedere".

Sui lavori sull’argine tra Lentigione e Brescello: "Non li feci io e neppure i miei figli. Non abbiamo macchine per movimentare la terra". Accenna a lavori in Albania, "paese che apre le porte a chi ha un’impresa avviata": "Ma non è vero che facevo di tutto per non far scoprire dove andavo. Mi chiesero un certificato dei carichi penali pendenti che il tribunale di Reggio mi rilasciò". Poi contraddice a uno a uno i pentiti. A partire da Salvatore Muto: "Lui sostiene che io avessi rapporti contabili con Nicolino Grande Aracri (suo fratello, boss di Cutro, ndr). Si facciano pure verifiche - è la sua sfida - guardate se c’erano lavori in comune". E Giuseppe Liperoti (genero di Antonio Grande Aracri, fratello di Francesco): "Dice di essere venuto a trovarmi nel cantiere di via Breda Vignazzi: voleva che lo prendessi a lavorare, ma io dissi di andare via". Si sfoga di nuovo: "Per le parentele la giustizia mi ha rovinato". Ancora: "Liperoti disse che ci incontrammo con lui e Alfonso Diletto nel capannone di Francesco Lerose, marito di mia sorella Giovanna. Non è vero: io e Diletto eravamo in cattivi rapporti perché ci aveva rubato il lavoro a Vicomero (Pr)". Dice di aver "aiutato le forze dell’ordine a sgominare un giro di auto rubate". Fa propria una sola frase del pentito Paolo Signifredi: "È vero quando dice che ero isolato da tutti questi mafiosi, e che ero un personaggio sciolto". Dice di aver subìto una truffa insieme al cognato Lerose da un’azienda: "Non saldò, poi decise di fare dieci assegni. Ma scoprimmo che il conto corrente era chiuso da tempo. Così andammo alla Finanza. L’avvocato di allora ci disse che il titolare avrebbe dovuto pagare l’errore. Ma l’udienza andò male: il legale ci disse che ciò era dovuto al fatto che eravamo meridionali".[EMPTYTAG]