Il processo che svelò il volto della mafia al nord È stato un viaggio lungo più di sette anni

Fu un’alba che segnò un risveglio anche per la coscienza della nostra comunità, brusco e quantomai necessario. La maxioperazione ‘Aemilia’, scattata nelle prime ore del 28 gennaio 2015, prende il nome dal nostro territorio: allora scoprì di essere diventato una casa per la ‘ndrangheta, che qui aveva fondamenta solide e continuava a porre mattoni su mattoni. Dietro vi fu l’imponente lavoro investigativo della Dda di Bologna sugli allora 224 indagati: per 117 scattò l’arresto (più altri 46 richiesti a Brescia e a Catanzaro), a 54 veniva contestato il reato di associazione mafiosa. Tra arresti, perquisizioni e sequestri, furono un migliaio i carabinieri mobilitati tra Reggio, oltreché Modena, Parma e Piacenza, e non solo. Il procedimento di ‘ndrangheta che ne scaturì è, per numero di imputati, il primo nel centro Nord, ed è diventato solo da poco il terzo in Italia, dopo il maxiprocesso di Palermo e il recente ‘Rinascita Scott’ di Catanzaro. Qui a Reggio aveva sede un’associazione di ‘ndrangheta "autonoma" dalla casa madre calabrese di Cutro, seppur sempre collegata al boss Nicolino Grande Aracri: una "nuova articolazione periferica, la cosidetta locale", i cui vertici emiliani "decidevano le singole attività illecite per reperire denaro, versando alla cosca cutrese solo una parte dei proventi e non tutti, come sarebbe stato logico se vi fosse stata una cassa comune". È un passaggio chiave della sentenza della Cassazione, emessa il 25 ottobre 2018 per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato: 70 approdarono alla maxiudienza preliminare nel padiglione delle Fiere di Bologna, di cui 45 arrivarono poi al terzo grado. Le accuse formulate nell’inchiesta sono di associazione mafiosa, con il ricorso allla forza intimidatrice. Oltre a estorsione e usura, porto e detenzione illegali di armi da fuoco. Intestazione fittizia di beni, riciclaggio ed emissione di fatture false. La ‘ndrangheta si è infiltrata nell’economia: erano gli imprenditori locali a chiedere aiuto alla cosca per fare affari. Ma c’è stato anche il coinvolgimento di forze dell’ordine. E professionisti: dai giornalisti ai consulenti economici. I restanti 148 imputati scelsero il rito ordinario: si affermò la volontà di giudicarli a Reggio, città epicentro dell’associazione mafiosa in regione, e si allestì un’aula bunker nel cortile interno del tribunale. Dal 23 marzo 2016 si susseguirono 195 udienze davanti alla Corte dei giudici presieduta da Francesco Maria Caruso, a latere Cristina Beretti e Andrea Rat. A rappresentare la pubblica accusa furono i pm della Dda Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, che discussero ogni posizione insieme a un centinaio di avvocati difensori e ad altri trenta che rappresentavano le 40 parti civili. Il collegio uscì dalla camera di consiglio, il 31 ottobre 2018, dopo quindici giorni, con un verdetto di 1.223 anni di condanna. Le motivazioni, estese dal giudice Rat, sono racchiuse in quattro volumi da 3.400 pagine che richiesero otto mesi di lavoro. In secondo grado a Bologna, di fronte alla Corte presieduta da Alberto Pederiali, a latere Maurizio Passarini e Giuditta Silvestrini, sfilarono 119 imputati: qui la Procura generale fu rappresentata da Lucia Musti, Luciana Cicerchia e Valter Giovannini, insieme alla Ronchi . Il 17 dicembre 2020 il collegio decise 700 anni di condanne. Poi l’ultima pagina giudiziaria, quella della Cassazione di ieri, scritta per gli 87 imputati. però non significa la fine: altri procedimenti di mafia sono nel frattempo scaturiti a Reggio, come ‘Grimilde’ e ‘Perseverance’, da cui sta emergendo come ciò che rimaneva dei tentacoli della cosca abbia continuato ad allungarsi anche dopo. In gennaio la procuratrice reggente Musti parlò per la nostra regione di "distretto di mafia", rimarcando "la condivisione del metodo mafioso anche da parte di taluni cittadini emiliano-romagnoli, imprenditori e cosiddetti colletti bianchi, che hanno deciso che ‘fare affari’ con la ‘ndrangheta è utile e comodo".

Alessandra Codeluppi