"Inaffidabile, troppi ‘non ricordo’. Alì Haider andava indagato"

La Corte di Assise smonta le testimonianze di Alì Haider, definendole incongruenti e non attendibili, sospettando che siano state condizionate dalla paura e dalla pressione familiare. Indicano la necessità di indagare sul ragazzo.

Incongruenze, bugie, accuse false. Sono alcuni dei modi con cui la Corte di Assise definisce le parole di Alì Haider, fratello di Saman, smontando la figura di quello che è invece stato un testimone chiave dell’accusa. I giudici parlano di "intrinseca inattendibilità e inaffidabilità del narrato" del ragazzo, minorenne all’epoca dell’omicidio e ribadiscono in più occasioni come "nessun riscontro, neppure parziale" sia stato trovato alle dichiarazioni di quello che invece è stato un testimone dell’accusa, in particolare nei confronti di zio e cugini, questi ultimi due assolti dalla Corte.

"Tacendo – evidenziano in un passaggio – della impressionante serie di non ricordo, oltre 120, con cui si è risposto a larghissima parte dei chiarimenti richiesti dai difensori degli imputati da lui accusati". La sentenza arriva alla conclusione di ritenere "fondato il sospetto che le sue dichiarazioni siano state condizionate dalla paura di essere coinvolto lui nella vicenda e dalla costante preoccupazione di tutelare i genitori, nella convinzione, invero fondata, di essersi ormai conquistato la fiducia degli inquirenti, accettando per tal via anche di accusare soggetti come Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz, di cui aveva professato prima l’innocenza".

Tant’è che per i giudici Alì Haider – come già ribadito nel corso del processo – andava indagato. A supporto di ciò si sottolinea un’intercettazione col padre Shabbar. "... in realtà sai chi ha rovinato, quello dell’Inghilterra ha rovinato. Mandava i messaggi e diceva cosa dire quando verranno e quando hanno preso il mio telefono hanno visto quei messaggi. Hanno visto tutto. Anche io sono stato costretto a dire che è così, cosa dovevo fare? Se dicevo qualcosa al contrario, potevo essere incastrato e sarei rimasto lì dove mi hanno portato la prima volta e non potevo andare da nessuna parte". Parole che si riferivano agli inquirenti e ai parenti inglesi che gli intimavano di non raccontare nulla, lasciando però traccia sui telefoni.

"Alla luce di tali circostanze – scrive la Corte – sussistevano elementi fondati per ritenere che a carico di Alì Haider emergessero precisi indizi di reità che si ritiene avrebbero dovuto indurre ad iscrivere il minore in relazione al reato principale. Non si intende dire che a suo carico sussistesse un compendio probatorio (...), ma avrebbe meritato un diverso approdfondimento in sede di indagini".