Bologna, è morto Concetto Pozzati, una vita a colori che ha cambiato l'arte

L’artista, protagonista del Novecento, aveva 81 anni

Concetto Pozzati è morto all'età di 81 anni

Concetto Pozzati è morto all'età di 81 anni

Bologna, 2 agosto 2017 - Se n'è andato in casa, la sua casa, accarezzato dai figli Jacopo e Maura. Se n’è andato in una sera caldissima d’estate, il pittore Concetto Pozzati, nella stessa casa dove morì l’amata moglie Roberta undici anni fa. Aveva 81 anni e da sei mesi era malato: aveva affrontato un lungo decorso post operatorio. 

Concetto Pozzati, le cose che ci ha detto

Gli piaceva definirsi "pittore rapinatore", come a dire di essersi imbevuto, ai suoi esordi, del clima dell’informale e della pop art, e di essersi via via orientato verso la convinzione che «le immagini non nascono dall’immaginazione, ma solo da altre immagini». Pozzati un classico, un maestro della figurazione novecentesca, ironica come lui, e come lui aperta a una discussione senza reticenze? Forse è il caso di dirlo senza paura. E c’era un’altra affermazione che a Concetto capitava spesso di ripetere, nel suo studio in fondo a via Zamboni, a due passi dalla Pinacoteca, lungo e accatastato come l’officina di un fabbro.

Ed era, quel pensiero, la sua straordinaria passione per l’insegnamento grazie al quale – spiegava – io non ero il professore, ma un allievo, perché era dai ragazzi che imparavo. L’Accademia di Urbino, quelle di Firenze e Venezia, e finalmente la cattedra di pittura nella nostra Accademia di Belle Arti sono le tappe del Pozzati docente, del suo rapporto caldo ma mai molle con gli altri. Gli ho abitato vicino a lungo, nel ghetto, mi sono nutrito persino degli incontri casuali sotto il portico di via Valdonica, e conservo ancora l’immagine sfrecciante, colorata, sulla bici, della moglie Roberta, la cui scomparsa fu per Concetto un colpo durissimo (e al suo ricordo dedicò uno dei suoi cicli pitorici più strazianti). Pozzati stava a Bologna, in pieno centro, ma vedeva il mondo.

Aveva cominciato a farlo, arrivato qui per studiare all’Istituto d’arte dal paese natale di Vo’ di Padova, formandosi dal ‘55, a vent’anni, nell’atelier parigino dello zio Sepo – Severo Pozzati – formidabile precursore dell’arte della pubblicità. Ripenso ai colori di Concetto, al rosa dei quadri per Roberta, al tono quasi cartellonistico delle sue tele di grandi dimensioni e ritrovo i suoi racconti su quella Parigi, e su un giro di affetti dove il padre Mario, lui stesso pittore, fu a lungo un nodo tormentoso. Non mi viene, in questo momento, un modo per chiamare l’arte di Concetto, e meno che mai lui stesso.

Per restare nell’aria di Parigi la sua è probabilmente Nouvelle Figuration, un’idea non lontana dal pop ma intrisa di un più netto impegno civile. Prima personale nel 1959 a Milano, e l’anno dopo un’esposizione di rilievo a Venezia, in Palazzo Grassi. Nella città di Francesco Arcangeli, di Andrea Emiliani, di Luciano Anceschi, del giovane Renato Barilli, di Luciano De Vita, Concetto entra con la sua curiosità internazionale, con il suo gusto del confronto, magari a una tavolata del ristorante dei Notai, davanti a uno dei sopraffini risotti del proprietario Leone.

Pozzati dipinge, e il suo dipingere è una riflessione sul linguaggio della scrittura. E’ questo continuo interrogarsi sul proprio fare ad accostare Pozzati alle avanguardie degli anni Sessanta, allo stesso Gruppo 63. Alla Biennale di Venezia Concetto arriva nel 1964, lo stesso anno in cui espone a Dokumenta, la famosa rassegna di arte contemporanea di Kassel, in Germania; alla Biennale tornerà altre quattro volte, e in mezzo ci sono le mostre di Parigi, la Biennale di Tokyo, la Quadriennale, e la grande antologica (200 opere) con cui nel 1976 si inaugurò il Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara, in Palazzo Massari.

Perché Concetto amava lavorare, e quando la salute lo tradì, dopo la scomparsa della moglie, misurava il ritorno in forma sul ritorno al lavoro. Nel 2015, per gli 80 anni, MAMbo gli dedica una piccola mostra delle opere in dotazione al museo (e lui regala uno di quelle opere fortemente geometriche che prediligeva a quarant’anni, ‘Ortogonale porn’). E lavoro è per lui anche fare l’assessore alla Cultura del Comune (giunta Vitali), dal ‘93 al ‘96, andandosene prima della fine del mandato e sforzandosi di mettere le ruote a Morandi, di farlo girare per il mondo anziché tenerlo nella clausura di via Fondazza utile a molti e a molte.

Perché Morandi fu sempre per lui un gran pittore ma un pessimo insegnante, privo della forza del contatto con i giovani. Concetto scriveva. Era come se volesse in ogni modo lasciare una traccia. ‘Parola d’artista’ è lui in forma di parole. E al tempo stesso c’era una voglia di sistemazione del lavoro e di narrazione. Lasciare un archivio d’immagini, le sue, nei grossi volumi editi da Maretti. E dipingere sempre più per cicli, per narrazioni, per temi completi. Si chiamavano Torture, Travestimenti, De-posizioni, Biblioteca dei segni, Ciao Roberta, A casa mia.

Tempo sospeso. "Sono i quadri – scriveva – che ti guardano e che hanno gli occhi, oltre una loro oralità, anche dietro la nuca. Sono loro che si confrontano, si scelgono o si isolano, individuando però il perché di quell’occhio sempre spalancato". C’era anche l’ironia pozzatiana in questa visione da teatro dell’assurdo (e quanto gli interessava il teatro, la sua scenografia: sceneggiava i suoi quadri). Basta leggere. Ma sentirlo dalla sua voce, in mezzo a qualche tocco di basket della Reyer Venezia, perché Concetto fu anche un campione di questo sport, era tutto diverso. Non come si dice quando uno è morto. Era diverso diverso.

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