Omicidio Tartari, il cattivo della banda accusa la badante della vittima

In aula il racconto di Ivan Pajdek: «Lei era alla finestra e ci ha visti benissimo»

Constantin Fiti, uno dei tre imputati per l’omicidio Tartari (foto Businesspress)

Constantin Fiti, uno dei tre imputati per l’omicidio Tartari (foto Businesspress)

Ferrara, 22 ottobre 2016 – «Rosy? Ci ha visti benissimo. Era alla finestra che fumava». Lo ripete due, tre volte in meno di 30 secondi Ivan Pajdek. Lui, il cattivo, il capo della banda già condannato a 30 anni per l’omicidio di Pier Luigi Tartari. Voce calma, a tratti disarmante, come se quella che sta raccontando davanti alla Corte d’Assise del tribunale di Ferrara, fosse una storiella qualunque. Come se quella sera del 9 settembre 2015, lui e i suoi giovani complici, Patrick Ruszo e Constantin Fiti, non avessero «legato come una mummia» e picchiato con «una mazza da 10 chili, un palanchino di metallo e un tubo», il 73enne di Aguscello, minuscola frazione nell’hinterland ferrarese. Come se poi, legato e imbavagliato, Tartari non fosse stato lasciato morire come una bestia – come confermato dai medici legali – in un casolare abbandonato in aperta campagna, tra sterco e carcasse animali, e lì dimenticato per 17 lunghissimi giorni. 

 

Ora Pajdek passa al contrattacco, lanciando bordate contro la madre di Ruszo, la Rosy che lavorava come badante nella villetta appiccicata a quella dove viveva Tartari. Accusandola di essere stata la basista. «E’ stata Rosy – affonda Pajdek – a dirci che Tartari viveva da solo, che aveva oro e una cassaforte. Fu lei, per prima, ad indicarci la sua abitazione. Lo disse a me, a suo figlio Ruszo e ad altre persone». La badante della porta accanto, che raccontò agli inquirenti di aver sentito l’ultima sera Tartari sussurrare non ho niente, ma di non aver però avvertito nessuno, non è mai stata indagata e ha aiutato polizia e procura ad arrivare alla cattura proprio del ‘cattivo’ Ivan Pajdek. «La sera della rapina – continua quest’ultimo – passammo dal cortile di Rosy e lei era alla finestra che fumava. Teneva la luce spenta». Vi ha visti, ne è sicuro?, chiedono gli avvocati. Lui: «Sì, sì e sempre da quella finestra». Non solo. Il giorno dopo i due si incontrarono in un bar della città estense: «Rosy – prosegue ancora l’imputato ieri in veste di testimone – mi disse che aveva sentito tutto il rumore dal muro. Mi chiese che cosa avessimo fatto, cosa avessimo rubato, cosa avessimo trovato».

Ma c’è di più. Stando sempre alla sua testimonianza, già da tempo Rosy insisteva nel consigliargli di svaligiare casa Tartari. Il croato esce dal carcere a gennaio 2015. Da allora, per sua stessa ammissione, si dedica a piccoli furti ed è proprio la badante a invogliarlo di svoltare. «Rosy mi diceva non devi fare piccoli furti’. Ti dico io dove andare a rubare – racconta Pajdek –. Intendeva la casa di Tartari e quella del fratello. Diceva che lì c’era l’oro».

Il capo del commando ricostruisce per l’ennesima volta la furia di quei momenti. Solo alla fine della deposizione, il giudice Debora Landolfi con una domanda centra il cuore di un rebus ancora irrisolto. Perché hanno portato via Pier Luigi. La versione di Ivan è, ancora una volta, disarmante. «Così potevamo tornare dopo con calma. E poi perché io lo vedevo molto male – dice col massimo candore –. In altre occasioni queste cose non sono successe. Stavolta è successa. Ci è scappato il morto». La banalità del male.