Il martirio di Pietro Sarchiè, un mistero in cerca di soluzione

Il reportage: da San Benedetto a Sellano, il viaggio della morte

Pietro Sarchiè con uno squalo nel suo negozio

Pietro Sarchiè con uno squalo nel suo negozio

Seppio (Macerata), 18 settembre 2014 - Il bel volto segnato, la bocca piegata in una smorfia dolorosa, la voglia di piangere e le lacrime che neanche escono più. «Qui è finito tutto», ripete a se stessa Jennifer, la figlia di Pietro Sarchiè. Che aveva 62 anni, faceva l’ambulante di pesce da una vita, come suo padre e come suo nonno, e aveva sempre gli occhi rossi dalla stanchezza. È uscito di casa, una bella villetta a San Benedetto del Tronto, alle 2 di notte come tutti i giorni. Era mercoledì 18 giugno, giusto tre mesi fa, pioveva. Non è più tornato. Hanno trovato il corpo il 5 luglio. Ucciso su questa stradina tra Seppio e Sellano, nell’entroterra maceratese, davanti a una chiesa aperta solo d’estate. Freddato con una P38. Gli hanno scaricato addosso un intero caricatore. L’hanno colpito 5 volte. Hanno nascosto il corpo in un casolare diroccato, nella Valle dei Grilli, a pochi minuti da qui. Gli hanno dato fuoco, lo hanno coperto alla meglio con materassi, terra e calcinacci. 

Per questo delitto, dopo tre mesi, ci sono solo indagati a piede libero. Accusati di omicidio Giuseppe e Salvo Farina, padre e figlio, originari di Catania, da qualche tempo ambulanti come Sarchiè, una casa a Seppio, avanti e indietro dalla Sicilia. «Ma quando è tornata sta gente?», si meraviglia un’amica di famiglia a Pioraco. Restano tanti misteri. «Chi sa parli», l’appello di Jennifer. Ma la donna la vede così: «È la gente di là, di Seppio e Sellano che può sapere». Quante volte è stato detto (e scritto): arriva la svolta. Ieri la magistratura ha dissequestrato il corpo. Per ora una sola certezza, si potrà fare il funerale. «Da una parte vorrei che quel giorno non arrivasse mai — confida Jennifer —. Così posso pensare che babbo sta ancora con noi». Si è tatuata su un braccio l’amore per il padre, «sei nella mia anima». La mamma Ave: «Quando mi hanno detto: signora, è suo marito. Carbonizzato? Sparato? Ma cosa dite, lui no!». L’inchiesta va avanti. «Appena avremo raggiunto un quadro adeguato, il procedimento farà il suo corso», è cauto il procuratore Giovanni Giorgio. Ammette: «C’è stato un handicap. Per noi le indagini sono iniziate il 5 luglio, quando si è scoperto il cadavere».

Sono stati persi giorni preziosi. All’inizio si è pensato a una sparizione volontaria. Scartata quasi subito la pista delle agenzie di scommesse, il figlio Yuri ne gestisce sei. Un errore pensare a Roma, per un numero di telefono sbagliato «e noi a controllare tutti i parcheggi, un incubo...», ripensa Ave. Invece si doveva guardare in casa. «Noi qui ci torniamo di continuo — racconta Jennifer —. Erano i suoi paesi. Quanto lo abbiamo cercato! Ovunque, nei boschi e nei fossi». Le giornate cominciano e finiscono con quell’ossessione: «Gli assassini devono pagare. La nostra famiglia non esiste più». Vogliono vendere la bella villetta di San Benedetto, la cucina di legno e ceramica, ovunque le foto di Pietro, «quella era la sua poltrona, guardava i programmi di cucina in tv poi s’inventava le ricette. Il sabato salmone, sughi speciali sempre. Li portava anche ai clienti. Per lui erano amici, guardi che lettere». Vivono al piano terra, «non siamo più saliti». Di sopra c’è un orologio fermo sulle 8 e cinque, «l’ora della morte di Pietro, sono sicura», ha gli occhi velati la moglie. A volte parla di lui al presente, come fa Jennifer. Che fantastica: «Ma ci pensi, cosa direbbe babbo di quel che stiamo facendo?». Ave prende fuori da un cassetto dei fogliettini colorati. C’è scritto «ti amo», «ti è piaciuta la sorpresa?». «Me li lasciava Pietro — si commuove —. Lo prendevo in giro, che sei un ragazzino?». Ucciso «per gelosia, perché volevano la sua zona». Lui così metodico, «quasi noioso, lo dico con affetto», la sintesi di Mauro Gionni, l’avvocato dei Sarchiè, lo stesso che ha difeso la famiglia di Melania Rea. «Il babbo era buono», non si dà pace Jennifer, impietrita davanti al casolare che è stata la tomba di suo padre. Sulla statale il traffico è continuo, attorno solo monti. Pezzi di vita di Pietro sono finiti anche lassù in vetta. Perché il furgone era ingombrante, unico. Così l’hanno sventrato, come si fa nei casi di lupara bianca. Si cancella tutto della vittima. Le cose di Pietro sono state ritrovate nelle cave e nei garage. Una via crucis in questi posti che amava, strade scomode e vita dura, 13 ore in giro con tutte le stagioni. Diceva alla moglie: «Ci verremo in vacanza». E lei, ora: «Guarda com’è finita...».