VALERIA EUFEMIA
Cronaca

Terremoto Marche 5 anni dopo: svettano le gru tra macerie e rassegnazione

Viaggio nel cratere di Arquata. Gli abitanti: "Agosto era il mese più bello, tornavano parenti e amici. Adesso non c’è più nessuno"

Una veduta della piazza di Arquata del Tronto cinque anni dopo il terremoto del 2016

Una veduta della piazza di Arquata del Tronto cinque anni dopo il terremoto del 2016

Arquata del Tronto, 21 agosto 2021 -  "Le parole sono finite". Gli abitanti dei luoghi distrutti dal terremoto cinque anni fa, hanno perso anche la voglia di raccontarsi. "Le parole sono finite", è la frase che ci ha accolto all’inizio del nostro viaggio tra paesi fantasma e new town. Una frase che poi, durante il giorno, ha fatto eco tra i superstiti di quella tragedia senza fine: uomini, donne, bambini e soprattutto anziani, logorati da attese interminabili e promesse infrante.

Stanchezza: è la prima sensazione che emerge durante l’ennesimo tour nella desolazione, partito dal cuore del cratere, Arquata del Tronto, e proseguito tra le sue frazioni, dove le macerie si sono ormai mescolate alla terra, creando uno scenario post-bellico a cui sembrava impossibile abituarsi.

Eppure, il passare inesorabile dei giorni (ben 1823 da quella terribile, prima scossa) ha trasformato l’orrore in consuetudine, rendendo abituale quel paesaggio perturbante, costellato da rovine che ancora oggi sembrano esalare l’odore della morte. "Non rivedrò più la mia casa", dice, quasi tra le lacrime, un’anziana signora incontrata di fronte all’uscio di una casetta, una delle 211 soluzioni abitative d’emergenza che avrebbero dovuto essere provvisorie, e che invece sembrano diventate un’eterna condanna. "Dicono che potrò tornarci l’anno prossimo, ma io non ci credo più. Intanto sono qui, sola, in questi 40 metri quadri. Uno spazio troppo stretto dove d’estate si soffoca e d’inverno si patisce il freddo. Qui siamo tutti avviliti, e stanchi pure di far sentire la nostra voce".

Anche la rabbia si è consumata, insieme ai giorni trascorsi nell’attesa, eppure, nel ‘deserto dei tartari’ qualcosa sta finalmente accadendo. Tra le macerie, per la prima volta in cinque anni, delle gru svettano alte nel cielo, lanciando un più concreto messaggio di speranza. A raccoglierlo per primo è il sindaco reggente di Arquata, Michele Franchi, che ha fiducia nel futuro e ci ha accolti con nuovo entusiasmo nella sede provvisoria del Comune. È proprio da lì che è partito il nostro viaggio, da lì dove da anni si lavora senza sosta per smaltire cumuli di pratiche nel vano tentativo di semplificare l’impossibile. Davanti al Comune, abbiamo trovato il camper vaccinale della Regione Marche, in tour tra i paesi colpiti dal terremoto. Tra le casette, invece, l’estate ha fatto riaffiorare i ricordi. "Agosto era il mese più bello – dicono in coro gli abitanti – tutti tornavano qui, compresi i tanti costretti a trasferirsi fuori per lavoro. Adesso non c’è più nessuno. Le nostre casette sono troppo piccole e non abbiamo spazio per ospitare i nostri parenti. Non ci sono strutture ricettive né posti letto da offrire a chi avrebbe voglia di tornare qui, nonostante tutto. Siamo soli".

Ma se nei villaggi provvisori brulicano ancora le voci della vita, tra donne riunite a chiacchierare e bambini che gridano giocando a calcio nel campo sportivo, il silenzio totale avvolge invece le zone rosse, dove ci siamo diretti subito dopo. Di questi luoghi non resta più nulla, se non la traccia visibile di ciò che non saranno mai più. L’ingresso al paese è una trincea abbandonata. Il primo edificio che appare, uno dei pochissimi rimasti paradossalmente ancora in piedi, è l’ufficio turistico: deserto, divorato dalle crepe, circondato dal nulla. La strada che parte da lì, e che un tempo conduceva alla piazza, ora è interrotta dal vuoto: uno strato d’asfalto si erge altissimo sul bordo della rupe, sovrastando macerie. Quel che resta della piazza, invece, è un lastricato di pietra scura su cui è stata adagiata la sommità della torre civica, un tempo appartenuta al Comune che si ergeva lì accanto, prima di precipitare giù nel dirupo.  

Gli arquatani chiamavano quella torre ‘campanone’, perché i suoi rintocchi scandivano il tempo della comunità. Oggi, invece, non c’è più nulla da scandire. Il tempo si è fermato a quella notte del 24 agosto, e tra le case distrutte del borgo spuntano ancora gli oggetti di una vita passata: una scala che conduce a un piano superiore inesistente, due pentole sopra a una vecchia credenza, un mangianastri impolverato, utensili da lavoro. Sono i simboli di una vita passata, che in molti casi non potrà più tornare. Come quella delle 51 vittime di Arquata, che tra quelle macerie hanno esalato il loro ultimo respiro, ma per le quali chi è rimasto non smette di lottare.