Dozza, troppi detenuti psichiatrici "Servono protocolli con l’Ausl"

Nella sezione 2 B un tunisino ha ingerito pile e lamette e poi ha dato fuoco alla cella. Un italiano è salito sul tetto

L'interno di un istituto detentivo

L'interno di un istituto detentivo

Tre giorni fa aveva ingerito sei pile, quattro lamette e alcuni frammenti di specchio. Portato in ospedale e dimesso, ieri, il detenuto tunisino ha dato fuoco alla cella di isolamento dove si trovava. "Si tratta di un soggetto psichiatrico, come purtroppo tanti altri alla Dozza, che sta creando grossi problemi nella sezione dove si trova detenuto", spiega Nicola D’Amore, segretario del sindacato di penitenziaria Sinappe. "Il punto è che non è il carcere il luogo per queste persone. Che vengono spostate da un istituto all’altro, come se fosse una soluzione, perché ingestibili – dice ancora D’Amore –. Noi siamo poliziotti, non medici: e manca un percorso strutturato, un protocollo che deve essere definito dalla Regione, attraverso l’Ausl, anche per uniformare i percorsi terapeutici da un carcere all’altro". Il detenuto, trasferito da Modena un mese fa, "era nella sezione 2B: una delle più difficili, dove l’uso ludico dei farmaci è un’abitudine e dove i detenuti producono alcol in cella. Questo lo ha presto destabilizzato, arrivando alla situazione attuale", dice ancora D’Amore. Che sottolinea le difficoltà di gestione dei detenuti psichiatrici, ma anche la complessità della sezione in questione dove "la scelta di dividere detenuti per etnia sta creando un sottobosco pericoloso. Assistiamo anche alla nascita di gang, come quella guidata da un noto spacciatore del Pilastro, arrestato nell’ultima retata della polizia".

Nella stessa sezione, l’altra sera, si è anche verificata anche l’ennesima rissa. "I problemi sono tanti, anche se la direttrice sta facendo il massimo per riuscire a rimettere ordine in questo caos – dice ancora il segretario del Sinappe –. E così gli agenti della peniteziaria". Che, l’altro giorno, hanno passato ore a convincere un detenuto italiano a scendere dal tetto del padiglione penale, dove era salito per una forma di protesta. O che, al nido, si prendono cura come famigliari del bimbo di 2 anni e mezzo dentro con la mamma. "Il carcere non è luogo né per persone sofferenti, né per bambini. Basti pensare che il piccolo non chiama le colleghe per nome, ma ‘assistenti’, come un detenuto adulto", conclude D’Amore.

n. t.

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