"L’avanguardia di quei giovani del Mulino"

Una giornata di studi in Cappella Farnese. Marchi analizza gli effervescenti anni ’50 in cui nacque la rivista: "Bologna fu un laboratorio"

Una foto dei fondatori del Mulino nel 1954

Una foto dei fondatori del Mulino nel 1954

Un decennio di transizione che apre a quello successivo nel segno della crescita economica, del fermento culturale e della riaffermazione del ruolo dell’intellettuale. Michele Marchi, docente di storia contemporanea dell’Alma Mater, riassume così il senso di un epoca che ha fortemente segnato la nostra città e l’intero Paese. Gli anni Cinquanta. A quel periodo oggi in Sala Farnese dalle 14,30 la Fondazione Biblioteca del Mulino dedica un pomeriggio di studi (Politica, società e cultura nella Bologna degli anni Cinquanta è il titolo) che, dopo l’introduzione di Paolo Pombeni, mette in fila una serie di relazioni di importanti studiosi quali Luca Baldissara, Enrico Galavotti, Vera Negri Zamagni e Roberto Balzani. Oltre, naturalmente, Marchi.

A Giancarla Codrignani, Federico Stame, Angelo Varni e Walter Vitali spettano le conclusioni sull’eredità di quella fase storica. Modera Ugo Berti Arnoaldi. Gli anni ‘50 sono quelli di Dozza sindaco e dell’altra città rappresentata da Lercaro e Dossetti, dell’espansione dell’università e del rilancio industriale. Ma sono anche gli anni della nascita del Mulino. Su questo, o meglio sull’anticonformismo dei giovani intellettuali che nel salotto di casa Matteucci fondarono la rivista, si incentra la relazione di Marchi. Quei giovani si chiamavano Pedrazzi, Santucci, Degli Esposti, Mancini.

Professore, quali erano le ragioni dell’impegno di quei ‘ragazzi’ colti?

"Avvertivano la necessità di andare oltre la contrapposizione fra la posizione comunista e quella filogovernativa, che a volte rischiava di piegare verso un conservatorismo nostalgico, e cercavano uno spazio di elaborazione intellettuale. La data della prima uscita della rivista, 25 aprile 1951, sottolinea l’antifascismo del gruppo. Grazie a Fabio Luca Cavazza, che seppe stringere legami con il Dipartimento di Stato americano e con le Fondazioni Ford e Rockefeller, gli Stati Uniti iniziarono a guardare con interesse a questo gruppo di intellettuali liberali, laici e anti-comunisti in una città a larga maggioranza Pci. Lo sguardo americano è sempre stato attento al modello emiliano e l’arrivo della John Hopkins, nel 1951, va letto in questo senso".

Perché è importante in quel periodo la presenza di Dossetti?

"La modernità della sua candidatura nel ‘56 sta nella scelta di andare oltre la diatriba Pci-Dc parlando direttamente agli elettori e puntando sul programma e non sulle ideologie. Lui venne invece percepito come un candidato democristiano voluto dal vescovo. Tre giorni dopo le elezioni il cardinal Lercaro in piazza Maggiore, davanti alla straripante vittoria comunista, parlò di ‘tanti fratelli che sono corsi follemente a sbattezzarsi’. E il Mulino, in quella occasione, difese la libertà di scelta politica dell’elettorato cattolico".

Che anni sono gli anni ‘50?

"È il tempo nel quale il Paese, uscito dal conflitto, si ricostruisce e getta le basi della modernizzazione. E in questo i giovani del Mulino rappresentano un’avanguardia, proponendo concetti di programmazione economica che vanno verso la società dei consumi che esploderà da lì a poco. Bologna è un laboratorio imprescindibile, basta pensare alla nascita dell’istituto Cattaneo".

Che eredità ci viene consegnata?

"Da una parte restano i segni di un aspro confronto politico, dall’altra arriva un’idea di speranza. Il Paese si mostra ricco di possibilità e aperto a giocare un ruolo di primo piano nello spazio euroatlantico. Ci si avvia verso il consolidarsi della Repubblica dei partiti, per dirla con Pietro Scoppola, e si impongo i fermenti culturali arrivati fino a noi".

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