Lavia porta in scena Dostoevskij: "Recito in compagnia di me stesso"

Sabato al Teatro Comunale di Cesenatico l’adattamento di ‘Sogno di un uomo ridicolo"

Lavia porta in scena Dostoevskij: "Recito in compagnia di me stesso"

Lavia porta in scena Dostoevskij: "Recito in compagnia di me stesso"

Un grande interprete della scena teatrale, Gabriele Lavia, sarà al Comunale di Cesenatico sabato alle 21, a recuperare la data in precedenza fissata a febbraio. Sul palco del teatro dai velluti blu, Lavia porta il recital "Il sogno di un uomo ridicolo": suoi regia, adattamento e traduzione del testo che il drammaturgo russo Fedor Dostoevskij scrisse nel 1876. Il Sogno narra la vicenda paradossale di un uomo di mezz’età, deriso e ritenuto pazzo; deciso a suicidarsi con un colpo di pistola, si addormenta e sogna la propria vita dopo la morte. Si "ritroverà" in una sorta di paradiso terrestre nel quale convivono in serenità esseri non corrotti "dalla prima caduta, dal primo peccato… felici, belli… Uomini che senza la scienza sapevano come vivere… in una specie di innamoramento". Ma il suo arrivo scombinerà quegli equilibri.

Lavia questo è un ‘Sogno’ ricorrente che la accompagna da decenni.

"Già, avevo 17 anni quando scoprii quel racconto fantastico, il testo filosofico tra i più alti di Dostoevskij che lo scrittore inserì nel suo ‘Diario di uno scrittore’; alla prima lettura ne rimasi folgorato. Ne ho poi ricavato un adattamento e uno spettacolo che più ho rappresentato in assoluto, più dell’Amleto di Shakespeare, e in varie versioni, tutte di successo: dalla messa in scena con un cast completo di attori, al recital con un altro interprete che nella penombra rappresenta il mio doppio, fino al "concerto per voce sola", come qui a Cesenatico, dove sono in compagnia di me stesso, seduto su di una sedia".

Ha dichiarato che è anche lo spettacolo più faticoso che lei abbia affrontato.

"Vero. La prima difficoltà è stata quella di imparare a memoria un testo lungo, complesso. Tale era però il mio entusiasmo per la tematica e il suo autore che, improvvidamente, quando Giancarlo Menotti mi chiese di partecipare al Festival dei Due mondi a Spoleto, gli proposi ‘Il Sogno’, che non avevo ancora studiato. Per fortuna mi aiutarono due miei assistenti di allora, uno dei quali un devoto e giovane Luca Barbareschi che dimostrò una costanza che io tradii, addirittura scappando, salvo poi ritornare sui miei passi. Fummo ripagati da tanto entusiasmo di pubblico e critica che ancora continuano a premiarmi".

Un impegno anche fisico?

"Certamente, tant’è che avevo deciso, dati i miei 82 anni, di non proporlo più. Nel testo integrale io indosso una camicia di forza metaforica e reale nel contempo, che mi rende difficile urlare disperarmi, rotolarmi nel fango, nella torba, nel sottosuolo dell’anima come un topo, uno scarafaggio. È quella cui mi costringono gli altri uomini che mi tacciano di follia e di ridicolaggine rinchiudendomi in manicomio perché ho scoperto che l’unica forza a salvare il mondo è l’amore. Ho in testa la frase ‘ama il prossimo tuo come te stesso’, ma non so chi l’abbia detto o dove l’abbia letta".

Un messaggio religioso?

"No, assolutamente terreno e umano: per Dostoevskij il destino dell’uomo è quello di realizzare una comunione con gli altri esseri umani, cosa possibile soltanto attraverso l’annullamento della propria individualità e attraverso l’amicizia, l’amore per il prossimo".

È vero che ha espresso il desiderio che un giorno lontano in cui dovesse lasciare questa terra vorrebbe che la vestissero con quella camicia di forza?

"Verissimo, ma se la nudità sotto la camicia dovesse destare imbarazzo ai parenti, va bene anche che me la appoggino sopra agli abiti".