Diga di Mosul, la sfida di Trevi. Guarda il video

L’ad del gruppo, Stefano Trevisani, spiega i dettagli del cantiere più pericoloso al mondo. "Andiamo a curare una grande opera in zona di guerra"

La diga di Mosul, in Iraq (LaPresse)

La diga di Mosul, in Iraq (LaPresse)

Cesena, 20 aprile 2016 - Stefano Trevisani, 53 anni, ingegnere, ad del gruppo Trevi, primogenito del fondatore, Davide. Sono partiti i primi tecnici della missione Mosul, avete vinto l’appalto da 273 milioni per mettere in sicurezza la diga di Saddam (FOTO). «La più pericolosa al mondo», scrivevano in America già nel 2007. Oggi il pericolo è anche lo Stato islamico, a soli 13 chilometri in linea d’aria. 

«Non è un cantiere come gli altri, lo sappiamo bene. Non abbiamo mai lavorato in una zona di guerra (VIDEO). Eppure in azienda c’è chi si è offerto volontario. Spinto dalla sfida, dalla grande opera da realizzare, dalle capacità richieste. Un bel segnale, in un momento come questo». Alla fine in cantiere lavoreranno quasi 500 persone, più o meno altrettanti saranno i soldati italiani impegnati a garantire la vostra sicurezza. Sorride: «Chiaramente il numero è una coincidenza... Ho visto scritte tante cose. Ma la verità è semplice».

Ce la spieghi.

«Quest’intervento è una priorità per il governo iracheno e per la Coalizione. Che garantisce una cornice di sicurezza, con il nostro esercito come attore principale. Quando si è deciso di fare la gara, tutti sapevano che nessuna impresa al mondo sarebbe mai andata a lavorare senza queste garanzie».

Come sarà organizzato il cantiere?

«I lavori dureranno un anno e mezzo, fino a ottobre dell’anno prossimo. Gli italiani saranno una settantina, i locali almeno 250. Poi stranieri di altre nazionalità».

La diga è considerata infrastruttura strategica.

«Prima di tutto serve a produrre energia, con una centrale idroelettrica di 750 megawatt, importantissima per il Paese. E sicuramente anche a regolare il corso del Tigri e a irrigare i campi».

Si dice e si scrive ormai da anni: catastrofe biblica se non ci mettiamo le mani. Già siamo nella terra dell’Arca di Noè...

«Da quando è stata completata, nell’85, la diga di Mosul ha sempre avuto problemi nelle fondazioni. Ci sono formazioni rocciose con strati di gesso che con l’acqua diventano solubili. Il ministero delle Risorse idriche è intervenuto con manutenzioni annuali. Fino al 2014».

Quando è arrivato l’Is, era agosto.

«E in quel momento l’attività si è fermata, non sappiamo per quanto tempo».

Poi c’è stata la riconquista dei curdi, nello stesso mese. Oggi i Peshmerga garantiscono la vigilanza armata.

«Noi riprenderemo la manutenzione che si faceva prima, certo con tecnologie più all’avanguardia. Inietteremo malte cementizie in queste fessure per impedire il passaggio dell’acqua».

Così è un lavoro che non finisce mai.

«Sicuramente è un intervento d’emergenza. Formeremo anche personale locale per continuare l’attività. Detto questo, la soluzione definitiva esiste, prima o poi le autorità ci dovranno arrivare. Nel 2010 eravamo stati scelti dopo una pre selezione in una gara internazionale. Non c’è mai stata l’aggiudicazione. Le tecnologie oggi le abbiamo. Non esistevano e tuttora non esistono se non in Trevi».

E garantirebbero un intervento radicale.

«Sono attrezzature particolari che abbiamo progettato e realizzato a Cesena e abbiamo testato in un campo prova qui vicino. Abbiamo lavorato con le università italiane: Bologna, Ancona, Torino... Tutto in vista di Mosul».

Ma allora perché oggi si mette ‘solo’ una toppa?

«Perché la soluzione definitiva prevede sette anni di lavori e un costo di 2 miliardi. Impossibile, soprattutto con le condizioni di sicurezza attuali».

Lei è già stato là?

«Ho fatto un sopralluogo prima di partecipare alla gara, ci tornerò. Il cantiere sarà pienamente operativo da metà settembre, si riempirà a fine agosto. C’è tutta una fase preparatoria, una base da costruire per 1200 persone. Le nostre macchine partiranno a luglio, via mare fino in Turchia poi via terra».

Ingegnere, uscendo da Mosul. Cosa sarà la Trevi fra trent’anni?

«Continueremo ad operare nel sottosuolo, un’area che diventerà ancor più strategica in futuro. Penso agli interventi di bonifica ambientale o di messa in sicurezza. Sono altrettanto sicuro che la crescita dei nostri secondi 60 anni passerà anche e soprattutto dalla capacità di trovare persone valide e motivate così come è successo nei primi 60».