Bologna, 24 marzo 2020 - "Pronto? Ho bisogno di aiuto, le devo chiedere un consiglio.....". A volte i carabinieri chiamano i carabinieri. Succede al tempo del nemico invisibile che viene dalla Cina. Dall’altro capo del telefono risponde il capitano Martina Panerai, originaria di Firenze, psicologa della Legione Emilia Romagna.
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Per ora è ’distaccata’ nel comando di casa propria, dato che deve lavorare solo con telefono, skype o whatsapp, dividendosi fra impegno professionale, genitori, marito e figlioletta di 5 mesi. Si occupa del servizio allestito in Emilia Romagna dal comandante, generale Claudio Domizi. Assiste psicologicamente i colleghi risultati positivi al contagio, in quarantena a casa, e quelli che ogni giorno e ogni notte sono sulla strada. A controllare varchi, ingressi autostradali, confini fra comuni e in generale il rispetto della selva di divieti e obblighi descritti nelle ordinanze.
Capitano qual è di solito la prima mossa? "Prendo contatto al telefono con i carabinieri risultati positivi al tampone, sempre che non siano gravi in ospedale, e con chi è in isolamento volontario. Il comando fornisce i nomi nella massima privacy".
Poi che fa? "Il contatto è soft. Mando prima un messaggio via whatsapp e poi chiamo solo se il collega è disponibile. Senza forzare la mano propongo una chiacchierata spiegando le modalità di intervento e gli obiettivi della mia attività. Sottolineo che il mio intervento è preventivo, e solo in caso di risposta positiva concordo un percorso di assistenza".
Trova disponibilità ? "Generalmente incontro fiducia. Quasi tutti sono disponibili e insieme prendiamo un appuntamento per proseguire. Qualcuno è più incerto e dice che gli serve tempo per decidere. Oppure rispondono va bene, ma sentiamoci più avanti".
Come riesce a valutare i risultati? "Lavorare solo al telefono non è il metodo con cui normalmente opera uno psicologo, così mi affido anche alle sensazioni che trasmette l’interlocutore. In molti casi mi aiutano i colleghi quando richiamano e ti dicono: capitano, volevo dirle che sto meglio... Così comprendo che si tratta dell’inizio di un buon percorso".
Che casi affronta? "Sentirsi dire che si è positivi al contagio è difficile per chiunque. I militari, soprattutto i più giovani, vivono soli, con le difficoltà conseguenti. Hanno padri, madri, mogli, fidanzate, affetti lontani. E questo è un problema. Chi è bloccato in casa ha necessità di essere psicoeducato e sentire che ciò che sta vivendo è una reazione normale a un evento anormale. E’ comunque un supporto di emergenza, non una terapia".
Colloqui con i familiari? "Certo, se è il collega a chiederlo".
Qualche esempio? "Un carabiniere mi ha pregato di parlare con la figlia che lavora all’estero. Lui è convinto di non riuscire a rasserenarla, e mi ha chiesto di dargli una mano parlando con la ragazza. Un altro, sempre in quarantena a casa, mi ha rappresentato il problema di non sapere come spiegare alla figlia di 7 anni che non può abbracciarla. Sono piccole storie quotidiane che in un momento di tensione hanno necessità di appoggio e assistenza".
Assiste anche i militari che sono in servizio? "Sì, ma solo coloro che mi contattano su base volontaria. Anche chi è in salute ma è impegnato in un compito a rischio a volte avverte la necessità di suggerimenti pratici, per affrontare l’apprensione dei familiari".
Lei ha un protocollo di lavoro? "Normalmente sì. Ma in questo frangente così insolito saltano gli schemi, e bisogna riadattare il metodo. Lavorare al telefono non è come avere di fronte una persona della quale si valutano la mimica e le emozioni. E’ un cantiere aperto".