Coronavirus Fano, i dializzati hanno paura di andare in ospedale

Percorsi separati per Covid e no Covid. "Ma nessuno ci ha fatto il tampone"

Un macchinario della dialisi

Un macchinario della dialisi

Fano (Pesaro e Urbino) 17 aprile 2020 - “Ho paura. Per me e per gli altri. Perché nessuno ci ha mai fatto il tampone e cosa ne sanno se siamo infettivi?”. Maria (la chiameremo così per tutelare la sua privacy, dal momento che la sua malattia è un dato sensibile) è una dei tanti dializzati della provincia, che al tempo del Coronavirus vivono con molte angosce in più, rispetto a quelle di una persona sana o presunta tale. E’ infatti una fragilità comune quella che ci si trova ad affrontare alle prese con il Covid-19, ma che si moltiplica all’ennesima potenza in un malato costretto ad uscire di casa: obbligato dalla necessità di sottoporsi ad una terapia salvavita.

“Un giorno sì e uno no devo andare in ospedale a fare la dialisi - racconta Maria -. Sto sdraiata sul lettino per 4 ore circa. Quel lettino si trova in una stanza, con altri cinque, a molto meno di un metro e mezzo l’uno dall’altro. Abbiamo tutti la mascherina, io anche i guanti perché ho molta paura. Gli altri no. Il dottore arriva alle 8. Noi siamo lì da prima, lo attendiamo tutti nella sala d’attesa (un corridoio, ndr). Quando arriviamo ci misurano la febbre. L’altro giorno quello accanto a me l’aveva alta. Ho sentito che l’infermiera gli chiedeva come stava e lui ha riferito di avere la dissenteria… è stato portato in un’altra stanza e gli hanno fatto il tampone. Magari non era niente, ma chi lo sa? O magari ce l’ho io il Coronavirus, anche se non ho mai manifestato sintomi”.

Giuseppe (anche questo è un nome di fantasia) conferma. “Mia moglie è dializzata e covid-positiva - racconta l’uomo -. La terapia non la fa a Fano perché il Santa Croce è per i no-covid (chi ha il tampone negativo, ma anche chi il tampone non lo ha mai fatto, come denunciavano l’altro giorno i sindacati anche per il reparto di Radiologia, ndr). Ma a noi familiari i tamponi non li hanno mai fatti. Chiaramente siamo spaventati anche noi, perché i problemi ovviamente ci sono. Ma capisco anche che la situazione è molto delicata e che medici, infermieri, direzione sanitaria fanno tutto il possibile per evitare la trasmissione del virus. Nel limite delle loro possibilità. E’ chiaro che se ci fossero più soldi, più materiale, più lettini sarebbe tutto più semplice”.

Per Noemi (anche questo di fantasia), un’altra dializzata, il punto è che “già i problemi della dialisi sono tanti…. noi dializzati siamo l’anello debole della catena umana. Anche io ho vissuto una brutta avventura, da cui sono venuta fuori per miracolo. Le scelte fatte dai medici erano contestabili, ma alla fine per me si sono rivelate comunque corrette”. Angosce che sono state riferite anche al referente provinciale dell’Aned, l’associazione nazionale degli emodializzati. “Da un lato c’è il riconoscimento del lavoro di prevenzione, dell’applicazione dei protocolli da parte dell’Azienda Sanitaria - spiega Alberto Leonardi - dall’altro però ci sono pazienti (soprattutto anziani, ma anche tanti giovani) con pluripatologie che sono obbligati a recarsi in ospedale, dove molti di voi evitano di andare in questo periodo per paura di contrarre il Covid. Ecco, in loro queste paure si moltiplicano perché l’alternativa è morire. E’ chiaro che è difficile cambiare l’organizzazione, perché non si può semplicemente spostare un letto, dal momento che ci sono strumentazioni che passano attraverso i muri e non si possono modificare gli allacci… Però sono anni che chiediamo dei cambiamenti”.