REDAZIONE FERMO

Quel cadavere in una sacca della discarica

Non ha un colpevole la morte della giovane Sagiaa Bent Madjoub, sposata e residente a Montegranaro. Il marito ne denunciò la scomparsa

di Fabio Castori

Ottobre 2002: dai rifiuti di una discarica in zona Brancadoro, nella periferia di Sant’Elpidio a Mare, emerge una sacca. Dalla cerniera spunta il teschio di una donna con ancora attaccate delle treccine ornate da perline, un orecchino e i resti di una mano mozzata. Su una delle dita ha una fede nuziale e dentro, incisa, una data.

È da questi elementi che i carabinieri, coordinati dall’allora sostituto procuratore della Repubblica di Fermo, Raffaele Iannella, ripercorrono a ritroso un tragica vicenda che porta ad identificare la vittima di una vera e propria esecuzione, con decapitazione e taglio della mano. Il cadavere è di Sagiaa Bent Madjoub, una tunisina di 34 anni, sposata e madre di due figli che, prima di scomparire, viveva con la sua famiglia a Montegranaro. Nel marzo del 1998, il marito aveva denunciato la scomparsa della donna, che non si era più fatta viva dal maggio del 1997. Nel 2000, in un laghetto artificiale di Montegranaro, erano stati ripescati casualmente i resti di un corpo senza nome.

Poi l’ultimo ritrovamento, gli oggetti particolari e la data sull’anello, che si rivelerà essere quella del matrimonio della vittima, conducono gli investigatori sulle tracce di Sagiaa. La correlazione tra i due ritrovamenti e la scomparsa della donna è fatta. Manca l’ultima prova, quella del dna. Una prova scartata fin dall’inizio per l’assenza di materiale organico da comparare con quello ritrovato nella sacca. Nel frattempo però qualcosa di nuovo accade: il magistrato e i suoi investigatori, i carabinieri di Montegranaro, scavando e scavando, riescono forse a trovare un nuovo appiglio. L’ultimo, il più sicuro.

La donna prima di scomparire avrebbe fatto ricorso ad alcune cure mediche in ospedale. E proprio lì che viene rintracciato qualcosa di suo, riconducibile direttamente al patrimonio genetico. I risultati dell’esame del dna risalgono al maggio del 2004. Ora non ci sono più dubbi: i resti del tronco ripescati nel laghetto e la testa mozzata rinvenuta nella discarica sono della stessa persona: è Sagiaa Bent Madjoub. Una donna dal passato irreprensibile e socialmente integrata nella cittadina calzaturiera, dove viveva con la famiglia, forse troppo integrata. Gli inquirenti però, un anno dopo gli esami del dna, sono costretti ad archiviare il caso: nessuno ha visto o sentito niente.

È come se ad uccidere la 34enne sia stato un fantasma invisibile. L’allora sostituto procuratore Iannella non lo ha mai dichiarato ufficialmente, ma gli investigatori sono quasi certi che si sia trattato di un’esecuzione avvenuta all’interno della comunità islamica. Forse alcuni comportamenti della donna, ritenuti troppo occidentali, non sono piaciuti alla sua gente. È una pista quasi impossibile da seguire per gli inquirenti, che, ancora oggi, si trovano di fronte ad un muro di omertà.