di Federico Malavasi
Si chiude con un patteggiamento anche il secondo filone d’inchiesta sul caporalato nelle campagne del Ferrarese. Dopo la prima tranche definita nelle scorse settimane, ieri mattina sono comparsi davanti al gip Carlo Negri altri due pachistani, Zulfiquar Alì, 57 anni, e Faisal Iqbal, 34. Il primo è ritenuto il capo della banda di reclutatori di manodopera, mentre il secondo sarebbe una sorta di vice con il compito di smistare gli operai nei campi e di conteggiare le ore effettuate (non a caso soprannominato ‘il segretario’). Per Zulfiquar si è concluso con una pena di tre anni e tredicimila euro di multa. Per Faisal due anni e due mesi e tredicimila euro di multa. A questo si aggiunge una confisca di beni per un ammontare di cinquantamila euro. Per quanto riguarda le aziende che, secondo quanto emerso dall’indagine, si sarebbero servite dei caporali per reclutare manodopera, il versante penale rimane ancora sub iudice. Molte di esse stanno intanto intraprendendo la procedura amministrativa per definire la propria posizione.
L’impianto accusatorio dei due filoni è molto simile, così come il modus operandi contestato ai soggetti finiti sotto indagine. Secondo le accuse formulate a vario titolo, i caporali avrebbero reclutato operai connazionali facendo leva sul loro stato di bisogno, con lo scopo di farli lavorare nei campi in condizioni di sfruttamento, con paghe da fame, in certi casi anche sette giorni su sette e per nove o dieci ore al giorno. Nel caso qualcuno avesse deciso di sgarrare o alzare la testa, erano botte o minacce di non essere più richiamati al lavoro. Le indagini che portarono ai due filoni di inchiesta con i relativi arresti partirono da una rissa avvenuta il 7 ottobre del 2020 in piazza della Repubblica a Portomaggiore.
L’attività dei carabinieri, coordinata dal pubblico ministero Ciro Alberto Savino, ha dunque permesso di scardinare un sistema che aveva messo sotto giogo ottanta operai gestiti e smistati nelle varie aziende tra il Ferrarese e il Ravennate. Di fatto trattati come schiavi e fatti vivere in condizioni disumane: alloggiati in un appartamento e altri (la maggior parte) in un capannone dismesso con brandine a terra e un unico servizio igienico. I braccianti erano inoltre costretti a decurtare dalla paga mensile le spese per vitto e alloggio.
Il risultato dell’attività investigativa è stato possibile anche grazie a un’attenta attività di mediazione da parte di alcuni mediatori culturali pachistani e dei militari del Nucleo ispettorato del lavoro. Un compito delicato e complesso, che si è aggiunto a quello investigativo di procura e Arma, finalizzato a far maturare la consapevolezza dei propri diritti nelle persone finite nel giro di sfruttamento.