"Ora posso dirlo: non sono un bancarottiere"

Assolto perché il fatto non sussiste dopo un lungo percorso giudiziario. L’imprenditore Sandro Sansoni racconta quattordici anni di odissea

Migration

di Cristina Rufini

FERRARA

L’amarezza prevale sulla felicità. Purtroppo è così". La felicità, per Sandro Sansoni, noto imprenditore ferrarese nel settore dei prodotti per l’estetica, 68 anni, sta nell’essere riuscito a dimostrare la completa estraneità dall’accusa, gravissima, di bancarotta fraudolenta. L’amarezza per aver dovuto attendere quasi dodici anni prima di sentirselo dire da un Tribunale.

Partiamo dall’ultimo atto della sua odissea?

"Ieri (venerdì, ndr) la Corte di Appello di Ancona ha assolto me e mio fratello Nicola dalle ultime accuse rimaste di bancarotta fraudolenta nell’ambito del fallimento del gruppo industriale Vitawell, dove ricoprivamo cariche di vertice".

Come si è arrivati alle accuse?

"Premetto che mio nonno, aveva creato il marchio Jean Klebert e fondato l’omonima azienda, poi portata avanti da me, mio fratello e da mia madre. Una grande realtà nel settore della cosmetica, definita, alla fine degli anni 90, il fiore all’occhiello dell’imprenditoria ferrarese e che aveva raggiunto oltre 50 miliardi di vecchie di lire di fatturato all’anno dando lavoro a oltre 80 dipendenti. Nel Duemila, poi, si scatena un’asta tra i vari fondi di investimento per acquistare la nostra azienda. Prevale Fineco Capital che acquisisce il 70% delle azioni. A noi resta il 30. Troppo affezionati per lasciare andare l’impresa di famiglia. In seguito, la fusione con un’azienda marchigiana che produceva macchine per il fitness: Vitawell. Io e mio fratello solo formalmente in ruoli di vertice, ma, di fatto, esclusi dalla cabina di regia del gruppo e all’oscuro delle strategie aziendali. E infine il default intorno al 2003. Decidiamo di riprenderci ciò che rimaneva dell’impresa di famiglia per rilanciarla, ma il nostro impegno non è stato sufficiente. Costretti a chiedere il concordato poi omologato. Nel frattempo, le società del gruppo Vitawell falliscono provocando un terremoto economico".

Che cosa accade, quindi?

"Dopo i fallimenti iniziano, nel 2008, le indagini per accertare le responsabilità dell’enorme voragine finanziaria causata dal default di Vitawell. Da qui inizia il nostro calvario, che raggiunge il suo apice il 23 settembre del 2011, giorno del mio compleanno, quando la mattina alle 5 i finanzieri, armati, si presentano a casa mia e di mio fratello per arrestarci, davanti ai familiari. Non potrò mai scordare il viaggio a bordo di una Punto, da Ferrara ad Ascoli, a tutta velocità e a sirene spiegate, tanto che ero terrorizzato. E l’arrivo davanti al carcere con le orde di giornalisti schierati".

E poi il carcere?

"Si, per otto giorni. Ambiente dove ho conosciuto persone speciali. Poi gli arresti domiciliari e, soprattutto, tutti i beni posti sotto sequestro. E la vergogna di dover girare nella nostra città: sapevamo di essere innocenti, ma gli sguardi della gente spesso ci facevano abbassare la testa. E dover nascondere il tutto a mia madre, morta nel 2013 per un ictus, cui ha contribuito lo stress di vedere i suoi figli accusati. Lei che ci aveva educato all’onestà".

Poi?

"L’assoluzione parziale in primo grado e la condanna a 3 anni e 6 mesi per le accuse relative all’arresto. Il nostro avvocato, Luca Mazzanti, non si è arreso e ieri ci ha portato all’assoluzione perché il fatto non sussiste. Alla riabilitazione e a poter dire a testa alta: non sono un bancarottiere. Ma, ripeto, l’amarezza supera la felicità".