"Scampato a Igor, incubo infinito. Non posso perdonare ma non odio"

L’agente di polizia provinciale Ravaglia dopo la condanna definitiva di Feher: "Ha seminato troppo dolore"

L’agente Marco Ravaglia

L’agente Marco Ravaglia

"Non perdono e non dimentico ma non odio". Marco Ravaglia, l’agente di polizia provinciale scampato per miracolo alla furia omicida di Norbert Feher, alias Igor il russo, prende in prestito le parole della senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta all’orrore della Shoah, per descrivere il suo stato d’animo. La notizia della sentenza della Cassazione, che l’altro ieri ha reso definitiva la condanna all’ergastolo per il serbo, dichiarato responsabile degli omicidi del barista Davide Fabbri e del volontario Valerio Verri, oltre che del tentato omicidio dello stesso agente, è stata accolta da Ravaglia come "una piccola certezza in più, un sassolino in meno nelle mie scarpe".

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Ravaglia, ora è davvero finita. Norbert Feher dovrà rimanere in carcere a vita per i delitti commessi tra il Mezzano e la Bassa bolognese. Si aspettava questo esito?

"Ho atteso la sentenza con trepidazione, per tutto il giorno. Verso sera, non vedendola arrivare, ho addirittura pensato che qualcosa fosse andato storto. Poi, alla fine, in serata ho appreso del verdetto dei giudici. Dentro di me ero sicuro che sarebbe andata a finire così. Ero convinto che la giustizia avrebbe fatto il suo corso".

Come valuta questa decisione della Suprema corte?

"È la parola ‘fine’ su questa lunga e dolorosa vicenda. Anche se devo ammettere che gli incubi legati a quel fatto continuano a essere ben presenti in me".

Nel descrivere il suo sentimento attuale ha citato una frase della senatrice Segre. Perché?

"Ho letto queste sue parole e mi hanno subito colpito. Ci ho riflettuto sopra a lungo, e solo dopo molto tempo le ho capite. Ovviamente, ciò che lei ha vissuto è infinitamente più grande e tragico rispetto alla mia vicenda personale. Sento però che quella frase rispecchia il mio attuale stato d’animo. Non perdono Igor e non dimentico. Ma credo di essere riuscito a eliminare da me quel veleno che è l’odio".

Pensa ancora a quel maledetto 8 aprile di quattro anni fa?

"Tutti i giorni, più volte al giorno. Quel ricordo è diventato una parte condizionante della mia vita. Ci ho pensato in diversi modi, elaborandolo e rielaborandolo anche con l’aiuto della psicologa che mi è stata vicina nel mio percorso di riabilitazione".

Cosa le torna in mente di quegli istanti?

"Ho appoggiato il primo piede a terra scendendo dalla macchina. Il secondo non ho fatto in tempo a posarlo. Sono stato attinto subito dai colpi, sparati con estrema precisione. E questo anche per smentire alcune affermazioni secondo le quali io sarei sceso dalla macchina con la pistola in pugno. Non è vero. E la ricostruzione delle ferite che ho subìto conferma la bontà della mia versione".

Quel giorno era in servizio con Valerio Verri. Che ricordo ha di lui?

"A Valerio va costantemente il mio pensiero. Così come ai suoi familiari. Ora spero che Feher sia messo in condizione di non nuocere più a nessuno. Quel mostro ha seminato troppo dolore e male".