Tumore, come combatterlo. Il prof. "Io uso il decathlon"

Mario Testi, insegnante di educazione fisica di Ferrara, in un libro-diario racconta le personali strategie sportive con cui affronta il mieloma

Mario Testi, insegnante di educazione fisica alle superiori, è autore del libro

Mario Testi, insegnante di educazione fisica alle superiori, è autore del libro

Ferrara, 8 dicembre 2019 - Ospedale di Cona, 21.40: un paziente, con l’asta della flebo in mano, percorre i corridoi avanti e indietro, tenendo d’occhio il cronometro. Oltre alla mascherina sanitaria, indossa il cardiofrequenzimetro. Quella di Mario Testi, 63 anni, insegnante di educazione fisica, è una gara. Raccontata in un libro-diario ('Inciampare nel cancro e rialzarsi') pubblicato da Faust Edizioni. Quando ha saputo della malattia? "Nel 2016, per una pura coincidenza di eventi, quasi asintomatica, culminata in una banale frattura allo sterno. Sembrava un nonnulla, si è rivelato un mieloma multiplo". La prima sensazione? "Una tranvata in faccia, cui è seguito lo sconforto, unito alla voglia di conoscere ogni particolare della patologia, e sapere quanto mi sarebbe rimasto da vivere. Poi è montata la rabbia che ho canalizzato, istintivamente, in una sfida al tumore". È un uomo di sport, e amico di persone che lo conoscono e lo praticano: è stata la chiave? "Senz’altro. Sapendo che lo sport fortifica le difese immunitarie, ho cercato e cerco di utilizzare ciò che conosco meglio per reagire. Così ho trasformato l’ospedale, oltre che in un luogo di cura e degenza, nella mia personalissima palestra". Ha praticato il decathlon, nel libro ne racconta l’applicazione: dai salti alle corse di resistenza, dall’ansia della velocità agli ostacoli. "Quando ho saputo che avrei dovuto affrontare un lungo cammino terapeutico costellato di pesanti interventi, mi è diventato naturale vivere così queste fasi. Nella stanza d’ospedale mi ero ricavato una specie di circuit-training, facevo i piegamenti su una poltrona, poi iniziavo i miei percorsi di walking, anche quando ero in isolamento". Cosa pensavano i sanitari? "Forse mi vedevano come un criceto che gira incessantemente sulla ruota nella gabbia. La prima volta, sentendo il cigolio delle rotelle, un infermiere mi ha anche ammonito a rientrare in camera. Poi, quando hanno compreso qual era il mio traguardo, assieme alla mia famiglia sono diventati i migliori compagni di gara". La famiglia che ruolo sta avendo? "E’ decisiva come il pubblico che ti incita nel finale di una maratona o nel momento cruciale di un match di tennis". In un grafico, mostra che la sua resa fisica, direi persino prestazionale, nelle fasi di degenza era quasi equivalente a quella dei normali periodi di allenamento. Cosa significa? "Che anche in quelle pessime condizioni, bombardato di farmaci e varie sostanze, se si ha la forza di stimolare il proprio organismo, questo risponde garantendo un migliore metabolismo generale che attenua i pesanti effetti collaterali delle terapie". Di sicuro non propone una sua ‘cura’ per il tumore. "Sarebbe assurdo. La mia è una testimonianza, forse un po’ particolare, che spero possa aiutare qualche altro malato ad affrontare in modo meno rassegnato il difficile percorso di pesanti terapie. E’ provato, del resto, il ruolo amplificato che gioca l’umore nella buona riuscita delle cure". Com’è il suo umore, e il suo livello d’allenamento, in questo periodo? "Sto per affrontare il ventesimo ciclo di chemio, e allora faccio trekking: in questi giorni sono su un’isoletta, respiro un po’ di aria pulita, applico quello che gli atleti chiamano il training autogeno". Nelle dediche iniziali, John Kirwan, il mitico campione del mondo di rugby del 1987 con la Nuova Zelanda, la definisce un ‘All Black’. Si sente un po’ Superman? "Tutt’altro. Sono una persona con una voglia enorme di sopravvivere, che a un certo punto si è trovata di fronte a un bivio. Lo stesso di qualsiasi atleta: fermarsi di fronte a una difficoltà, o lottare per portare un po’ più avanti la propria corsa".