Giovanni Mosciatti, un anno di Vescovado "Una nuova proposta di fede per i giovani"

L’ex ’don’ marchigiano festeggia la prima ricorrenza della sua nomina. "Ho scoperto la voglia degli imolesi di aiutare il prossimo".

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Gabriele Tassi

L’accento romagnolo, così ben centrato sull’"‘av vòi bela che bè" aveva sciolto il cuore di tutti. Il 13 luglio di un anno fa, nel giorno dell’ordinazione a Vescovo di Imola, Giovanni Mosciatti già confessava il suo amore per la città con quel "vi voglio già bene" pronunciato alla fine della cerimonia. Uscito dalla cattedrale sulla piazza assolata, gremita di nuovi fedeli e dei suoi cari parrocchiani – e amici – della diocesi di Fabriano-Matelica, ancora non sapeva che nel 2020, Imola, l’Italia e l’umanità intera avrebbero dovuto affrontare una delle prove più difficili, attraversando l’ondata di morte portata dal Coronavirus. Non sapeva che la fede stessa sarebbe stata colpita dalla pandemia, fra messe e cerimonie bloccate. Questa sera, per ricordare il suo primo anno di episcopato, alle 21 in cattedrale il ’Dongiu’ (così lo hanno sempre chiamato i suoi parrocchiani) celebrerà una messa a cui ogni comunità è invitata ad essere presente con una piccola delegazione di fedeli. Naturale domandarsi come sia stato l’impatto di quei primi giorni sull’ex parroco. "Mi sono trovato a dover conoscere daccapo una città, da cima a fondo – spiega Mosciatti – e ho scoperto che c’è un infinita attenzione al prossimo, attraverso opere di carità e volontariato che si spingono fino ai confini del mondo, grazie alle missioni".

Nel periodo dell’emergenza abbiamo davvero tutti visto la carità tornare alla luce. Ora che il peggio sembra essere passato, da qui in avanti quale potrà essere il compito della chiesa imolese?

"C’è da insegnare alle persone a essere cristiane, sempre di più, giorno dopo giorno. C’è da riprendere in mano un’intera proposta ‘di fede’ e rifarla su misura per i giovani. Si va dal bisogno di educazione culturale a quello sociale, che oggi è diventata una vera emergenza".

Lei, quando ancora era nelle Marche, ne aveva fatto la sua bandiera, tanto che c’è chi la definiva il ‘prete di strada’, per aver rimesso insieme i cocci di una comunità cattolica ’difficile’. A Imola, invece, recentemente alcune zone della città sono state teatro di episodi di violenta criminalità minorile, possiamo attribuirli a questa sorta di ‘emergenza educativa’?

"C’è senz’altro un collegamento. E’ chiaro che i ragazzi vanno sempre coinvolti nella vita di comunità. Nel caso di quelle che i giornali definiscono ‘baby-gang’ si tratta di energia incanalata in modo e nella direzione sbagliata: mi ha molto colpito la lettera inviata alla vittima dalla sindaca di Casalfiumanese (Beatrice Poli, ndr): bisogna lavorare in gruppo sulla proposta educativa, e quanti più si metteranno insieme per colmare questo bisogno, migliori risultati si avranno".

Ma la Chiesa in questo caso può intervenire?

"Da sempre la Chiesa ha un fine educativo, come diceva il mio maestro don Luigi Giussani : ‘Toglieteci tutto, ma non la possibilità di educare’. Credo che la fede abbia soprattutto la grande capacità di tirar fuori il bene dal cuore degli uomini".

E in casi come questo, come si fa?

"Per me è sempre stata un’urgenza che ancora mi sento addosso come vescovo. Da ‘don’, seguivo scuola e parrocchia (faceva l’insegnante di religione, ndr), ma ora il mio ruolo si è tramutato. E’ stata una sorta di ‘svolta educativa’, arrivata a settembre con la lettera del Papa sull’utilità del ‘villaggio educativo’, una vera e propria comunità, fatta di persone capaci di sorreggere le altre. Il compito di un vescovo è riunire tutti questi talenti, per questo motivo, come diocesi, stiamo riprendendo in mano il progetto del villaggio educativo, lanciato da Francesco".

Il 2020 è stato un anno irrimediabilmente segnato dalla pandemia. La città ne esce a testa alta?

"Altissima, a cominciare dall’impegno dei sanitari e di tutto l’apparato medico. Ma mi ha soprattutto colpito – dopo un primo sconcerto iniziale – il fatto che la carità non si sia mai fermata, una delle più grandi peculiarità degli imolesi, che ricordo notai immediatamente anche appena arrivato".

Molti dicono che il virus ci abbia insegnato qualcosa.

"E lo dico anch’io. Sin da quando abbiamo visto il Covid minacciare le comunità degli anziani abbiamo riscoperto il valore di nonni e bisnonni. E’ un po’ come se la pandemia ci avesse fatto reagire, facendo scoppiare quella bolla in cui eravamo rinchiusi. E’ questa una delle più grandi peculiarità dei cristiani: il saper trovare il bene anche nella tragedia".

La Chiesa come interviene di fronte all’emergenza globale?

"La Chiesa ci mette davanti a Dio, che è la radice della speranza, ci aiuta a ritrovare il senso di una comunità che riscopre lo stesso cammino. Recentemente abbiamo fatto un incontro con gli insegnati di religione: ci hanno raccontato che durante le lezioni in streaming le loro domane sul futuro e quelle dei ragazzi erano praticamente sovrapponibili. Con il virus tutti si sono ritrovati sullo stesso piano, tutti stavano compiendo un cammino insieme. Ed è questa la comunità ideale che come vescovo vorrei costruire".