Imola, ucciso da un macchinario: azienda condannata

Danilo Poggiali, 22 anni, rimase incastrato nell’apparecchio che stava cercando di riavviare: 6 mesi al legale rappresentante della Italmicro

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di Enrico Agnessi

Si chiude con una condanna a sei mesi di reclusione (disposta la sospensione condizionale della pena e la non menzione nel certificato del casellario giudiziale) il processo per la morte sul lavoro di Danilo Poggiali, l’operaio di 22 anni di Casalfiumanese deceduto in seguito a un incidente avvenuto all’Italmicro di Borgo Tossignano il 21 novembre 2016. La condanna è stata inflitta al legale rappresentante dell’azienda, rinviato a giudizio nei mesi scorsi per omicidio colposo dal pubblico ministero Beatrice Ronchi e al quale il giudice Fabio Cosentino ha riconosciuto le attenuanti generiche e quella del risarcimento del danno.

Secondo l’accusa, né Poggiali né il collega che era con lui al momento dell’incidente (la cui posizione è stata archiviata dal momento che l’indagine ha escluso una sua azione dolosa e una condotta colposa) avevano avuto adeguate istruzioni nella formazione professionale per l’utilizzo della macchina giuntatrice il cui movimento causò la morte dell’operaio, procurandogli lesioni letale al capo.

E proprio su questo punto (ovvero la condotta omissiva dell’impresa in relazione alle norme sulla prevenzione degli infortuni) che si è incentrato l’esito dell’indagine della Procura, nonché la sentenza di condanna del Tribunale. L’azienda – e quindi il legale rappresentante – non aveva assicurato ai dipendenti la "prevista, specifica e idonea formazione conseguente all’assunzione al lavoro" in relazione al corretto utilizzo della macchina sulla linea di produzione del cartone (l’azienda fabbrica imballaggi).

Nel dettaglio, le istruzioni allegate al macchinario prescrivevano che in seguito a una rottura del nastro della carta dovesse operare un solo addetto, e non due come accaduto quel tragico 21 novembre 2016. E così nelle complesse operazioni necessarie alla ripartenza della macchina un operaio aveva operato al quadro comandi, mentre l’altro era salito in piedi sul macchinario. Dalla posizione in cui era, l’operaio al quadro comandi non poteva vedere dove era posizionato Poggiali, e questi non poté sentire il segnalatore acustico del riavvio del macchinario a causa dell’ambiente rumoroso. La macchina giuntatrice ripartì. "La prima regola da osservare nell’utilizzazione di quella macchina è ed era quella dell’operatore unico – si legge nella sentenza –. Se l’operatore è uno solo, in presenza di un quadro comandi funzionante su basi di movimentazione manuale del carro scorta, laddove egli si trovi nei pressi degli organi mobili, essi sono necessariamente fermi; la fase della loro movimentazione corrisponde invece a un posizionamento dello stesso operatore in zona sicura: tertium non datur".

Quella dell’unicità dell’operatore è, secondo il giudice, una "regola collocata ‘a monte’ di ogni altra prescrizione obbligazione destinata a guidare ‘a valle’ le concrete modalità di azione del lavoratore di fronte alle esigenze di lavorazione di volta in volta prospettantisi: è anzi, si può ben dire, regola concepita proprio per evitare, comunque, che modalità di azione sbagliate, anomale, distratte, colpose conducano a esiti che il sistema della prevenzione si cura di scongiurare". Il problema è che quella regola, "per prassi più che consolidata", in azienda non era rispettata. "È una condanna molto voluta e cercata dalla famiglia di Danilo – spiega l’avvocato Giovanna Cappello, che ha assistito i Poggiali – perché dà conto di come non ci sia stato alcun comportamento abnorme da parte del ragazzo. Era invece la prassi lavorativa della Italmicro a esporre tutti i dipendenti a un rischio altissimo. È una sentenza che, pur se con una pena mite rispetto alla gravità del fatto, dà conto di quello che la famiglia ha sempre sostenuto nella sua battaglia in sede penale e civile".