Alessandro
Feliziani
In occasione del terremoto del 1976
in Friuli, l’arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, pronunciò una storica frase, poi elevata a slogan
di un efficiente modello
di ricostruzione: "Prima
le fabbriche, poi le case, poi
le chiese". L’ordine di priorità era dettato da intelligenza
e pragmatismo, non certo dall’importanza.
Le chiese, infatti, al pari dei luoghi di lavoro e di abitazione, riguardano tutti: credenti
e atei. Oltre a coloro che le frequentano assiduamente per pregare, c’è chi va in chiesa solo a Pasqua e in altre festività. Alcuni vi entrano da turisti per ammirare le opere d’arte e c’è chi lo fa solo occasionalmente, magari
per ripararsi da un improvviso acquazzone che lo coglie
per strada. Dalle chiese nessuno è respinto; esse sono luoghi di comunità, anche quando vi si entra e non c’è nessuno, perché ognuno vi può trovare qualcosa del proprio essere, della storia del paese
e della propria civiltà.
Indipendentemente dalla proprietà, le chiese sono beni pubblici in senso lato, ma oggi sono sempre meno quelle fruibili. Negli ultimi decenni sono state chiuse quasi tutte
le piccole chiese di campagna, spesso già depredate dei loro piccoli tesori d’arte.
La mancanza di preti
e l’accorpamento delle parrocchie hanno poi comportato la chiusura di altre chiese "minori". Infine,
i terremoti hanno fatto il resto. Nell’ultimo rapporto
del commissario per la ricostruzione post sisma 2016 si legge che nell’intero cratere ben 2.509 chiese necessitano di interventi di recupero,
ma esistono finanziamenti solo
per 925 edifici di culto (253
in provincia di Macerata). Tra questi figurano Santa Maria in Via e San Filippo a Camerino, oltre alla Collegiata di Visso, tre gioielli d’arte di cui parla lo storico Tomaso Montanari nel recente libro "Chiese chiuse". Chiese che, scrive l’autore, "con il loro silenzio secolare offrono una pausa al nostro caos" e che urge rendere fruibili, in quanto sono "scuola di umanità aperta a tutti".