PAOLA PAGNANELLI
Cronaca

Scoperta dopo 70 anni: "Nella lettera il grazie a mio padre che salvò ebrei e prigionieri"

Mario Borroni era un carabiniere e tenne sempre per sé questa storia. Il figlio Renzo: "La missiva era rimasta nascosta in fondo a un cassetto:. una donna gli esprime riconoscenza per il suo spirito di patriota".

Scoperta dopo 70 anni: "Nella lettera il grazie a mio padre che salvò ebrei e prigionieri"

Scoperta dopo 70 anni: "Nella lettera il grazie a mio padre che salvò ebrei e prigionieri"

Dopo più di settanta anni, grazie a una lettera datata settembre 1944 e alla documentazione sui campi di concentramento in provincia, ha scoperto che il padre, da carabiniere ventenne, aveva aiutato ebrei e prigionieri durante la seconda guerra mondiale, mettendo a repentaglio la sua vita. A rendere nota la storia, a ridosso del Giorno della Memoria, è Renzo Borroni, membro del Cda della Fondazione Carima di cui è stato per anni segretario. "L’ho scoperta per caso – racconta – perché mio padre, Mario, non ne parlava mai. Dopo la sua morte, nel 1995, e poi di mia madre Luciana, sistemando le loro cose, ho trovato in fondo a un cassetto una lettera a firma di Lilly Breitel. Anni fa, parlando con la professoressa di Storia contemporanea Annalisa Cegna, ho scoperto chi fosse: una ebrea di origine polacca, internata nei campi di concentramento prima di Lanciano, poi di Pollenza e infine di Sforzacosta. Dopo la Liberazione, lei era diventata una responsabile dei campi". La lettera, datata 15 settembre 1944 e scritta a macchina, è una testimonianza importantissima: "Oggi possiamo dire, con senso di profonda gratitudine, che lei, sotto la divisa di carabiniere, agì sempre con spirito di patriota, e servì sempre la causa della Liberazione, perché, ad esempio, aiutò molti inglesi a fuggire dall’ospedale e intralciò sempre, efficacemente, le richieste al riguardo che le autorità fasciste facevano". Lilly Breitel menziona anche il nome di una "spia venduta ai fascisti che le fece avere gravi incidenti con le autorità nazi-fasciste, denunciandola per favoreggiamento ai prigionieri inglesi che lei doveva sorvegliare. Ricordiamo con riconoscenza tutte le informazioni che Lei ci dette quando, molte di noi fuggite dal campo di concentramento, per non essere portate in Germania, ricorsero alla Sua opera. Queste informazioni ci permisero di schivare le ricerche tedesche". "Mio padre non dava peso per niente a questa storia – prosegue Borroni -. Non aveva fatto una scelta ideologica: voleva solo essere un carabiniere. Da carabiniere era dovuto scappare dalla caserma l’8 settembre, rischiando di essere deportato in Germania. Poi con la Rsi nel ‘44 tornò in servizio e si trovò a fare la guardia ai prigionieri portati all’ospedale di Macerata. Non ha mai dato peso alla parte della lettera in cui si dice di far avere quel documento alle autorità, per far riconoscere i suoi meriti. Ha cercato solo di dare una mano". Ora Borroni valuterà se avviare la procedura per farlo riconoscere tra i Giusti delle nazioni. "Mi sento un po’ padre di mio padre, ora che io ho 75 anni e lui all’epoca 22 e si è trovato a fare una cosa di cui non si è reso conto, come altri, senza pensare che avrebbero potuto fucilarlo. Tra l’altro, lui era a Roma in servizio alla caserma Podgora quando arrestano Mussolini. Ricordava che gli tremavano le gambe davanti al duce".