
Giorgia Lupi, 39 anni, progettista di Finale Emilia che vive a New York
Modena, 21 dicembre 2020 - Dove molti vedono soltanto numeri o statistiche, Giorgia Lupi vede linee avvolgenti, intrecci di nastri, accenti colorati come petali di fiori. Ma soprattutto vede vita e storie. "Quando si lavora con i dati, è facile credere che siano soltanto una raccolta oggettiva di fatti o cifre, e invece sono una maniera per filtrare la realtà. È importante cercare di leggere nei dati anche le relazioni e la quotidianità di ognuno di noi, con le sue sfumature", spiega l’information designer che da Finale Emilia, nella Bassa modenese, già diversi anni fa è volata a New York, diventando partner del prestigioso studio Pentagram.
Classe 1981, laureata in Architettura a Ferrara, con PhD in Design al Politecnico di Milano, Giorgia Lupi sta conquistando la platea internazionale con il suo manifesto del ‘data humanism’, l’umanesimo dei dati, che non sono soltanto algoritmi o formule e si possono visualizzare in modo più originale, rispetto ai classici diagrammi o grafici generati dal computer.
E’ annoverata fra le 100 personalità più creative, e di recente il New York Times le ha affidato la copertina del suo supplemento "At home". "La sua ossessione per la raccolta dei dati sembra quasi di rigore", ha scritto di lei il Guardian. "Nelle sue mani, i dati possono avere personalità, forma e calore", ha aggiunto il New Yorker.
Come è nata questa passione? "Da bambina mi divertiva stare nella sartoria di mia nonna e giocare con i suoi bottoni, metterli in ordine per dimensione o secondo il numero di buchi. Ogni giorno davo loro una disposizione diversa. Qualcuno pensava a una mia fissazione, invece forse era un presagio".
Infatti si è ritrovata a lavorare con i dati e la loro visualizzazione... "Con il mio team progettiamo l’accesso alle informazioni, ovvero il modo in cui una persona (il lettore di un giornale o il fruitore di un’installazione) possa realmente mettersi in relazione con i dati e comprenderli. In questo è fondamentale la componente visiva".
Non bastano le tabelle? "Credo che per molte persone sia difficile consultare un foglio di calcolo pieno di numeri. Anche perché spesso i dati vengono presentati in modo astratto".
Un esempio? "Esistono dati ‘emozionali’ che dovrebbero toccarci nel profondo e invece vengono proposti in maniera poco coinvolgente. Si parla del cambiamento climatico e si cita il dato sulla temperatura che si alzerà nei prossimi anni, o il fenomeno dei ghiacciai che si sciolgono: ma così è difficile ricondurre questi numeri alla propria vita. Se invece io spiego che, a causa del riscaldamento globale, ci saranno alcune specie di uccelli che non sentiremo più cinguettare nel nostro giardino, ecco, questo approccio aiuta a personalizzare".
È questo, dunque, l’umanesimo dei dati? "Sì, i dati contengono storie e le restituiscono. Tenga presente che in sé i dati non esistono, ma siamo noi esseri umani ad averli ‘creati’ per registrare la realtà in maniera principalmente quantitativa".
Lei ha provato anche su se stessa a umanizzare i dati... "Con un’amica designer londinese, Stefanie Posavec, per un anno ci siamo scambiate ogni settimana una cartolina su cui davamo forma grafica a momenti delle nostre giornate: quante volte avevamo sorriso, quante telefonate avevamo fatto. Quelle cartoline sono diventate il disegno delle nostre vite, e quell’opera, ‘Dear data’, ora fa parte della collezione del MoMA (il museo d’arte moderna di New York)".
È possibile applicare questi principi anche ai dati sul Covid? "Certo, anzi è necessario. Anche qui negli Stati Uniti ogni giorno siamo bombardati da cifre: contagi, ricoveri, decessi. Però spesso questi dati non vengono contestualizzati. In questi mesi ho lavorato proprio sulla rappresentazione dei dati forniti dal governatore dello Stato di New York: abbiamo provato a farli ‘parlare’ di più".
Quindi servono occhi nuovi per andare oltre i numeri... "I dati sono il mio materiale creativo: ogni volta devo creare un set di regole per rappresentarli, ed è come un esercizio di stile. Nei dati c’è storia, umanità, e secondo me anche una grande bellezza".
Le manca l’Italia? "No, mi manca la mia mamma che è a Finale, ma non l’Italia. A New York mi sono trovata subito a casa, e già dalla prima volta in cui vi ho messo piede ho pensato che fosse il posto dove volevo costruire il mio futuro. Amo questa città per la sua energia, per l’opportunità di conoscere persone con competenze diverse, per l’apertura mentale che ti dà. Non dico che in Italia non ci siano opportunità: semplicemente sto molto bene qui".