"La vita, un grande ballo in maschera"

L’opera di Verdi stasera al Pavarotti-Freni, il regista Gasparon: "Colori seicenteschi tra araldica ed esoterismo"

"La vita, un grande ballo in maschera"

"La vita, un grande ballo in maschera"

di Stefano Marchetti

Che cos’è la vita, se non un grande ballo in maschera? "Un luogo in cui dietro le maschere possono nascondersi insidie, tradimenti, delusioni", osserva Massimo Gasparon, architetto e regista. È lui a firmare la ripresa della celebre opera di Giuseppe Verdi che conclude la stagione lirica del teatro Comunale Pavarotti Freni con due recite, stasera alle 20 e domenica, il 5, alle 15.30. La messinscena classica nasce da un’idea che Pierluigi Samaritani realizzò nel 1989 per il teatro Regio di Parma. Ed è un Ballo ’splendidissimo’, per usare le stesse parole del libretto: fastoso, sontuoso, potente, un tripudio di scenografie e costumi come ormai è raro vedere in allestimenti sempre più minimalisti. A dare voce ai protagonisti sono il tenore Giorgio Berrugi, il baritono Devid Cecconi, il soprano Maria Teresa Leva, il mezzosoprano Alisa Kolosova e il soprano Lavinia Bini. In buca la Filarmonica di Parma diretta da Alessandro d’Agostini. Alla ribalta anche il Coro Lirico di Modena preparato da Giulia Manicardi e i bimbi bravissimi delle Voci bianche del Comunale preparati da Paolo Gattolin.

Andato in scena nel 1859, ’Un ballo in maschera’ dovette affrontare le maglie della censura che più volte costrinse a rivedere trama e situazioni: ispirata a un episodio reale, il ferimento e la morte di Gustavo III re di Svezia, l’opera racconta di Riccardo, governatore di Boston, che ama segretamente Amelia, sposa di Renato, suo segretario e amico fraterno, ma non vuole tradire la sua fiducia: al ballo in maschera Renato ucciderà Riccardo, alleandosi con i congiurati che tramano contro di lui, ma scoprirà (troppo tardi) che l’amico aveva rispettato l’onore.

Maestro Gasparon, come ha ripreso quel lavoro di quasi 35 anni fa?

"Dandogli nuova linfa e nuove linee. Quell’allestimento, certamente elegante e poetico, si legava a un gusto tipico degli anni ‘80: evocava lusso, grandeur, ma a volte era generico. La mia passione anche per l’araldica mi ha portato a dargli riferimenti più chiari e colori e linee più decisamente seicentesche, anche nei costumi. E l’orrido campo del secondo atto ora è più riconoscibile".

In che modo?

"Grazie a uno splendido fondale dipinto da Rinaldo Rinaldi, gloria modenese della scenografia, ispirato a un’opera di Caspar David Friedrich. Ho accentuato anche alcuni caratteri esoterici, addirittura satanici, della maga Ulrica che a volte è stata rappresentata come un cartone animato, quando invece è un personaggio chiave, già nel libretto".

È fondamentale riferirsi alle parole del compositore?

"Certo, Verdi qui sottolinea fortemente l’idea del destino e dei ‘segnali’ che noi dobbiamo saper cogliere per non andare incontro alla tragedia. In questo senso, davvero, il ‘Ballo’ è una metafora della vita che cela insidie. Anche musicalmente, proprio le scene del vaticinio di Ulrica e il ballo finale sono accompagnate da melodie molto innocenti che invece nascondono la tragedia incombente.

Lo scorso anno alla Scala, nel nome del politicamente corretto, è stato cambiato il verso in cui Ulrica viene definita ’dell’immondo sangue dei negri’: si cantò invece ’del demonio maga servile’. La scelta è stata molto criticata. Accadrà anche qui a Modena?

"Assolutamente no. Anche perché quelle parole vengono pronunciate da un giudice per disprezzare la maga, ma Oscar e Riccardo invece non la condannano: Verdi non era razzista, anzi in questo passaggio intende proprio sbugiardare un messaggio negativo. Ogni frase va sempre letta nel contesto in cui è pronunciata, e con lo sguardo al tempo in cui è stata scritta. Il ‘politically correct’ purtroppo rischia di banalizzare tutto".