
L’artista cagliese arriva nell’Olimpo del teatro italiano con un lavoro di grande importanza e visibilità mediatica
Il nome della Rosa, un libro che rimane scolpito nella storia della letteratura del Novecento. Ed ora l’iconico romanzo di Umberto Eco, che ha ispirato l’omonimo film, è diventato lo spunto per realizzare anche un’opera. E sono già tutte esaurite al Teatro alla Scala le cinque rappresentazioni del Nome della rosa che il Teatro milanese ha commissionato a Francesco Filidei in prima assoluta domenica sera. In cartellone un cast di primissimo livello con la regìa di Damiano Michieletto (conosciuto al popolo del Rof per aver firmato vari e prestigiosi allestimenti), e una cagliese: la coreografa e ballerina Erika Rombaldoni che in quest’opera firma per giustappunto le coreografie.
Erika Rombaldoni a cosa si è ispirata per le sue coreografie? "L’ispirazione viene in primis dalla visione drammaturgica di Damiano Michieletto: il suo desiderio era quello di far rivivere l’immaginario medievale, ma in una chiave simbolica, non didascalica. Non si tratta di ricostruire un’epoca, ma di evocarla, e in questa prospettiva, anche il corpo, il gesto, la relazione tra spazio e figura diventano strumento narrativo".
Quale è stato il rapporto con il regista Damiano Michieletto? "Con Damiano il dialogo è stato fertile e fluido. Condividiamo un’idea di teatro in cui i linguaggi – visivo, corporeo, musicale – devono fondersi organicamente per raccontare una storia. Il suo modo di lavorare è molto aperto: parte da un’idea drammaturgica chiara e poi lascia spazio ai gesti, ai corpi, alle intuizioni che nascono in prova. C’è un intento condiviso di costruire una grammatica scenica dove la danza non è un’aggiunta, ma parte integrante della narrazione".
Nell’opera lirica spesso i balletti sono considerati fuorvianti per la drammaturgia e il pubblico dei melomani. Quale è la sua lettura? "La componente coreografica di questo spettacolo include due sequenze emblematiche in cui si animano simbolicamente elementi iconografici medievali. In una di queste, ad esempio, le statue del portale di un’abbazia gotica si animano: la pietra diventa carne, la storia prende corpo. La coreografia non è solo un momento estetico o evocativo, ma ha un valore narrativo e simbolico, legato allo sviluppo interiore del personaggio di Adso da Melk. Per me è infatti fondamentale che la danza abbia un senso drammaturgico, che sia strettamente connessa allo sviluppo narrativo. Deve espandere il racconto".
Firmare le coreografie per un’opera alla Scala non è solo prestigioso ma un grande onore. Non crede? "È un onore immenso, e allo stesso tempo una grande responsabilità, far parte di questo progetto pensato per un teatro prestigioso come la Scala e per l’Opéra di Parigi, che insieme al teatro milanese ha commissionato questa nuova produzione. La Scala non è soltanto un’istituzione di prestigio: è un luogo simbolico, che custodisce la memoria viva della nostra storia teatrale e musicale. Entrare in quel solco, e farlo con un’opera nuova, coraggiosa, visionaria come questa, è un privilegio, che affronto con profondo rispetto e gratitudine".
Cosa porta in dote rispetto anche alle sue esperienze al Rossini Opera Festival? "Il Rof per me è un pò casa, e non solo perché vengo dalla provincia di Pesaro e Urbino. Ho sempre lavorato lì con grandissimo piacere, in un clima di altissima professionalità e al tempo stesso molto accogliente. Ogni estate a Pesaro si crea una realtà artistica straordinaria, viva, generosa. Sarebbe bello tornarci presto con una nuova prospettiva e nuove responsabilità, magari da coreografa o regista".