REDAZIONE RAVENNA

Crollo alla diga, tocca alle difese. Ed è subito rimpallo di accuse. Tra le cause "il fondo sabbioso"

In aula i consulenti del progettista esecutivo della centrale idroelettrica, uno dei nove imputati

In aula i consulenti del progettista esecutivo della centrale idroelettrica, uno dei nove imputati

In aula i consulenti del progettista esecutivo della centrale idroelettrica, uno dei nove imputati

Si apre il rimpallo di responsabilità sul crollo della diga di San Bartolo, tragedia che il 25 ottobre 2018 costò la vita a Danilo Zavatta, tecnico della Protezione Civile. Nell’udienza di ieri del processo per disastro e omicidio colposi – nove imputati tra tecnici e dirigenti della Regione, progettisti e un imprenditore – , i riflettori sono stati puntati sulle dichiarazioni dei consulenti della difesa (avvocato Max Starni) di Angelo Sampieri, progettista esecutivo per conto della ditta Go4It che realizzò la centrale idroelettrica ritenuta dalla Procura all’origine della tragedia. Secondo i tecnici, la responsabilità non sarebbe da attribuire al loro assistito, ma piuttosto a una combinazione di fattori esterni, tra cui la natura sabbiosa del fondo del fiume Ronco e presunti errori nella gestione delle paratoie, di competenza della Regione.

La difesa di Sampieri ha sottolineato che il fenomeno di sifonamento, alla base del cedimento, non può essere collegato né al progetto esecutivo né ai lavori eseguiti sotto la sua supervisione. I consulenti hanno smentito che vi fu un primo campanello d’allarme ad aprile 2018, quando un abbassamento del livello del fiume non fu dovuto a un sifonamento ma "a un errore dell’algoritmo di controllo" dell’impianto. Il sifonamento, invece, si verificò il 4 settembre successivo, ma le sue cause "non sono state comprese correttamente". Quel giorno si doveva svuotare il canale idroelettrico per installare una seconda turbina. La causa di quel fenomeno, hanno spiegato, sarebbe da ricercarsi nello svuotamento troppo repentino dell’acqua. E soprattutto, hanno scagionato il cosiddetto “pozzettone“, un tubo-camicia pensato per installare una pompa per asciugare il canale a lavorare all’asciutto, lasciato aperto per oltre un anno che per l’accusa ebbe un ruolo centrale. Da quel pozzettone, inizialmente chiuso con un tappo d’argilla, si evidenziò un gorgoglio dell’acqua con rilascio di sedimenti. Ma quello "non fu la causa, semmai la spia" del sifonamento, ricondotto piuttosto alla gestione delle paratoie e a uno svuotamento, gestito in modo brusco. Da lì in avanti l’impianto idroelettrico avrebbe lavorato correttamente, fino al quel fatidico 25 ottobre, quando per capire se il problema fosse stato risolto, si ripeté "l’esperimento". Ma anche quella volta, il mix tra svuotamento rapido e massimo carico di acqua a monte della chiusa innescò un nuovo vortice, che tuttavia non si palesò più dal pozzettone, chiuso nel frattempo con un tappo di calcestruzzo, ma si sfogò attraverso "un percorso singolare" sulla sponda fluviale lato Ravegnana, determinando il conseguente cedimento della spalla del ponte sul quale Zavatta stava camminando. Per i consulenti del Pm Lucrezia Ciriello, il crollo fu favorito anche dalla demolizione di presidi idraulici di sicurezza, il cosiddetto “taglione“, presente dagli anni ’50, quando la diga fu rimaneggiata. I consulenti di Sampieri, tuttavia, parlano di "svista" e sostengono che quei presidi non solo non sarebbero stati rimossi, ma che, in ogni caso, non avrebbero impedito il fenomeno erosivo, dato che la corrente del fiume avrebbe trovato sfogo altrove, aggirando qualsiasi protezione, agevolata dalla presenza di una grossa banchina di sabbia.

Lorenzo Priviato