REDAZIONE RAVENNA

Derby burdèl-tabàch

Derby burdèl-tabàch

(segue dalla prima)

l termine ‘burdèl’ ha origini altrettanto poco nobili. Deriverebbe dal latino ‘burdus’, variante di ‘burdo’, bardotto, cioè l’ibrido ottenuto dall’incrocio di un’asina con un cavallo, passando poi dal significato primitivo a quello di figlio illegittimo, fino ad arrivare a quello di bambino o ragazzo. In "Misteri e curiosità della Bassa Romagna", Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi individuano l’area di diffusione del termine ‘burdël’ nella Romagna centro-orientale, cioè Forlivese, Cesenate e Riminese, anche se è conosciuto pure nella Romagna occidentale. Dove però sono preminenti, con lo stesso significato, i termini ‘tabàch’ nel Ravennate e ‘bastêrd’ tra il Lughese, il Faentino, l’Imolese e le relative vallate tra il Sillaro e il Lamone, con sovrapposizioni nelle linee di confine del dialetto. Nel suo "Vocabolario etimologico romagnolo", Gilberto Casadio attribuisce l’origine di ‘tabàch’ a ‘tabachu’, come viene definito, in antichi documenti veneti e ferraresi, il cuoco di bordo delle galee, compito affidato in genere ad un giovane mozzo. Il termine passò a significare garzone di giovane età e quindi ragazzo. L’origine marinara spiega la diffusione del termine ‘tabàch’ lungo la costa ravennate e nell’immediato entroterra. L’origine di ‘bastêrd’ è incerta. I più lo fanno risalire al latino ‘bastardus’ col significato di animale da soma e precisamente mulo, un ibrido nato dall’incrocio tra un asino e una cavalla, passato poi a significare figlio illegittimo, quindi solo figlio e, per estensione, bambino. Fra i tre termini dialettali è quest’ultimo a creare imbarazzanti qui pro quo, anche se, come gli altri, viene usato con amorevolezza. Come racconta lo scrittore Cristiano Cavina di Casola Valsenio, nella collina faentina: "Mio nonno ‘Gianì’, recatosi a Roma in occasione della nascita di una nipotina, quando la vide esclamò entusiasta: "Che bella bastardina!". L’altro nonno, siciliano, diede un ‘tirone’ indietro con un baluginio degli occhi, esclamando: "Non si dicono queste cose ad una bambina!". Il qui pro quo fortunatamente fu subito chiarito, spiegando la naturalezza e l’assenza di malizia con cui i romagnoli usano tale termine".

Beppe Sangiorgi