
"Lo dissi al pm dell’epoca: anche io puntai il sospetto verso Tasca. In caserma del resto non si parlava d’altro che di questi fatti". Fatti di una Alfonsine ancora sospesa tra il bianco e nero e le polaroid a colori. L’anno del resto è il 1987 e la data è quella del 21 aprile: quella notte il 21enne Pier Paolo Minguzzi, studente universitario, rampollo di una famiglia di imprenditori locali dell’ortofrutta e carabiniere di leva alla caserma di Mesola, nel Ferrarese, viene rapito, strangolato e gettato nel Po di Volano incaprettato a una pesante grata. Il suo cadavere riaffiorirà 10 giorni dopo quando i rapitori avevano già chiesto alla famiglia un riscatto da 300 milioni di lire ben sapendo che il 21enne era morto.
Dopo 34 anni, davanti alla corte d’assise di Ravenna, tre sono gli imputati: l’idraulico del paese, il 63enne Alfredo Tarroni. E due ex carabinieri, all’epoca in forza alla locale caserma: Angelo Del Dotto, 56enne di Ascoli Piceno, e Orazio Tasca, 54enne di origine siciliana ma da tempo residente a Pavia e unico ad avere scelto di non presentarsi all’udienza. A prendere la parola ieri mattina davanti alla corte, è stato il primo dei testimoni all’epoca in servizio alla caserma alfonsinese: anzi, il maresciallo Aurelio Toscano, 87enne di origine calabrese, era il comandante di Stazione: "La denuncia di scomparsa venne fatta il giorno dopo. Non mi ricordo bene, forse la fece il fratello". E allora come prima cosa, ‘interrogai la fidanzata’ di Minguzzi, cioè la ragazza che quella notte il 21enne aveva appena riaccompagnato a casa. A caldo evidentemente non si escludeva nessuna ipotesi tanto che "feci pure un appostamento con Tasca dentro a un furgone per andare a controllare movimenti sospetti" a casa della giovane. Una pista che si era rivelata ben presto del tutto infondata.
E invece i sospetti su Tasca si erano accumulati "via via che le le indagini andavano avanti: non da subito però – ha precisato il sottufficiale – ma dopo un po’". Tasca dormiva nella stessa stanza in caserma assieme a Del Dotto e a un altro giovane militare: il suo ritratto uscito per bocca dell’ex comandante, non è certo lusinghiero: "Era un poco di buono. Aveva un certo modo di rapportarsi con la gerarchia e con i civili... era, per così dire, uno zoticone". Il teste, su domanda del pm Marilù Gattelli, ha qui ricordato di una licenza di 5 giorni dalla quale l’imputato tornò in ritardo: "Ho passato una notte indescrivibile... Doveva tornare dalla Sicilia, ma mi telefonava e mi diceva bugie tipo che era a Roma e invece era ancora a casa". Diverso il giudizio su Del Dotto: "All’apparenza era un buon carabiniere". Sì, all’apparenza: forse qualcosa si era incrinato quando "avevo ricevuto l’ordine di controllare il suo armadietto" e dentro "vi trovai un paio di miei guanti di pelle che cercavo da un po’". In quanto al terzo imputato, il Tarroni, "capitava spesso che venisse in caserma: i tre si frequentavano, c’era una amicizia particolare tra loro", e, come del resto quasi tutti là dentro, "andavano al bar Agip".
A questo punto il maresciallo ha toccato un tasto importante per l’accusa: il fatto che all’epoca "alle riunioni in caserma per parlare delle indagini", partecipassero un po’ tutti: anche Tasca: "Mi ricordo bene che pure lui una volta ascoltò le registrazioni delle chiamate per il riscatto". Ed è da quelle che uno dei militari, il brigadiere Mario Renis, vicecomandante, "ebbe dei sospetti dalla voce". E poi quel telefonista aveva usato "una gergo che si usava per radio tra carabinieri". Quale? Per il pm, questo: "Si conferma".
"Renis era in gamba, sveglio, giovane, uno bravo veramente: fu il primo ad avere sospetti su Tasca". Ed ecco il contesto dell’incontro con il pm di allora: "Dopo l’omicidio Vetrano", il giovane carabiniere ucciso a luglio di quell’anno durante un appostamento per una tentata estorsione a un altro imprenditore alfonsinese per l’accusa compiuta dai tre imputati, "parlai con lui: anche io puntai il sospetto verso Tasca".
"Non voglio usare il termine ’nonnismo", ha poi scandito il 57enne lughese Maurizio Marchi, oggi comandante della polizia locale a Gambellara e nel 1984 carabiniere ausiliario ad Alfonsine, "ma Tasca era uno rigido che faceva valere l’anzianità". Il testimone ha ricordato di una volta nella quale si trovava "in ufficio con Toscano quando venne uno a lamentarsi perché aveva riconosciuto la voce di Tasca come quella di chi, con telefonate anonime, chiamava la figlia". Tasca, sentito dal comandante, aveva negato. Marchi ha ricordato un altro episodio singolare: "Fuori dal servizio, in caserma Tasca e Del Dotto facevano entrare altre persone per giocare a carte: anche se non l’ho mai visto, dai commenti ho capito che giocavano col denaro".
Andrea Colombari