Badante morto di Covid, causa milionaria

I familiari citano l’anziano datore di lavoro per oltre un milione. Per la difesa il defunto non si era vaccinato e si curava con le erbe

L’uomo è stato trovato positivo al Covid il 3 settembre (foto di repertorio)

L’uomo è stato trovato positivo al Covid il 3 settembre (foto di repertorio)

Ravenna, 25 maggio 2022 - Avevano preso entrambi il covid. Il primo, un ravennate classe 1939, si era salvato. L’altro, di origine straniera, pur di diversi anni più giovane (era nato nel 1953) e in buona salute, era invece deceduto. Il primo si era vaccinato. L’altro, no. E se la vicenda che tiene unite queste due storie, approderà domani davanti al giudice civile Dario Bernardi, è perché il defunto era il badante dell’anziano. Una causa di lavoro insomma del valore totale di un milione e 200 mila euro circa tra danni patrimoniali e non: è quanto moglie, figli e nipoti hanno chiesto per la morte del loro caro.

In buona sostanza, attraverso l’avvocato Marco Emiliani, si sono rivolti al tribunale di Ravenna per arrivare ad accertare che il decesso per covid-19 era giunto a causa di violazioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Tre le parti citate: oltre al datore (avvocato Campion), anche l’Inail (avvocato Gianluca Mancini) e l’assicurazione dell’83enne (avvocati Francesco Ferroni e Marta Lignini dello studio legale Effeffe & Partners).

Secondo quanto lamentato dai familiari del defunto, l’uomo aveva iniziato a lavorare per l’anziano dal gennaio 2021 come domestico part time (25 ore). Quindi a fine agosto per una settimana era andato in ferie. Ed è al rientro - sempre secondo i ricorrenti - che aveva preso il covid dall’anziano. In particolare il tampone aveva rivelato la positività dell’83enne il primo di settembre mentre per il badante il responso reca la data del 3 settembre. Un contagio sul luogo di lavoro insomma, inquadrato come causa esclusiva o comunque prevalente del decesso: da qui il coinvolgimento pure dell’Inail. Del resto il decreto Cura Italia ha equiparato l’infezione da covid-19 contratta sul lavoro (o durante i trasferimenti) a un qualsiasi infortunio con causa virulenta.

Da parte sua l’anziano, sia attraverso il proprio legale che tramite l’assicurazione, ha sempre contestato questa ricostruzione dei fatti, a partire dalla relazione tra contagio e ambiente di lavoro (cioè casa sua). Due gli aspetti sui quali ha puntato l’attenzione: la natura pandemica del virus e la lunga fase di incubazione (14 giorni). Come dire che è impossibile accertare un nesso di causalità. Ed è in questa direzione che vanno le occlusioni di una consulenza medica di parte secondo cui è improbabile che la positività al tampone del badante, riscontrata quando l’uomo era già sintomatico, possa essere stata manifestazione di una infezione rimediata sul posto di lavoro. Anzi: secondo il medico non sarebbe nemmeno possibile accertare che i due erano stati aggrediti dalla stessa variante del virus. E poi - sempre secondo la difesa - l’anziano dopo i primi sospetti aveva diligentemente fatto subito un tampone molecolare.

E sul fronte prevenzione, tra le altre cose, il datore di lavoro ha messo in risalto un elemento: il suo collaboratore domestico (o care giver se preferite) era contrario al vaccino e non aveva mai fatto mistero di questa sua posizione. In questo modo avrebbe anzi potuto lui stesso offrire veicolo al virus tanto che i figli dell’anziano avevano più volte manifestato le loro preoccupazioni in proposito. La risposta del badante a loro avviso andava in questo senso: il vaccino non lo avrebbe protetto dal rischio contagio; e, per quanto riguarda lui stesso, si sentiva forte e in buona salute: il covid cioè non gli faceva paura. Sul punto, tra le memorie difensive, figurano anche posizioni inquadrate come no vax di un familiare del defunto veicolate tramite Facebook.

L’ultimo questione sollevata ha riguardato i metodi di cura del domestico: sono stati bollati come alternativi in quanto costituiti in principio da erbe medicinali e infusi e poi seguiti da antipiretici. Ma dato che la febbre non svaniva, erano stati proprio i figli dell’anziano a insistere per fare intervenire i medici dell’Usca (le unità speciali di continuità assistenziale) i quali si erano infine risolti a portare il badante in pronto soccorso. Ma ormai era già forse troppo tardi.