Saranno i Comuni a valutare le delocalizzazioni

Il Piano speciale per la pianura romagnola impone restrizioni alle nuove costruzioni e interventi urbanistici, privilegiando la mitigazione della vulnerabilità degli edifici esistenti e la delocalizzazione. I Comuni dovranno valutare e trasferire gli immobili in aree idonee, mentre la risagomatura degli argini deve avvenire rapidamente per fronteggiare le piene.

Quale futuro attende gli 800 chilometri quadrati di pianura romagnola allagati, o le immense porzioni di collina e montagna franate? Su questo fronte il Piano speciale è categorico: "Nelle aree oggetto dell’ambito di applicazione sono da escludere i rilasci di titoli abilitativi riguardanti le nuove costruzioni, interventi di demolizione e ricostruzione, ristrutturazione urbanistica, ampliamenti fuori sagoma e ogni altro intervento, anche temporaneo, che comporti aumento di carico urbanistico, inclusi i cambi di destinazione d’uso anche senza opere edilizie". Sul patrimonio edilizio esistente saranno insomma possibili solo "interventi volti a mitigare la vulnerabilità degli edifici, tra cui gli interventi di adeguamento sismico", gli "interventi di consolidamento e restauro conservativo", gli "interventi di manutenzione straordinaria su opere pubbliche". Fa eccezione "la realizzazione di nuove infrastrutture essenziali e non altrimenti localizzabili": una sorta di ‘lodo Faenza’ per evitare che la città si ritrovi priva del Ponte delle Grazie che unisce le sue due metà.

Saranno i Comuni a farsi carico della scelta di delocalizzare: "I Comuni procedono a una valutazione alla scala locale dei manufatti e degli edifici da delocalizzare". Le amministrazioni dovranno "individuare aree idonee dando priorità alla rigenerazione urbana, per il trasferimento degli immobili", privilegiando "l’acquisto del patrimonio edilizio esistente. Le aree relitte, libere da immobili e permeabili, devono essere acquisite al patrimonio indisponibile dei Comuni". Quanto tempo occorrerà invece per risagomare gli argini? Il piano non fa previsioni, ma la parola d’ordine è ‘fare presto’. I tempi di ritorno delle piene, stimati talora in 200 o 500 anni, non devono ingannare: molte arginature "non sono adeguate al contenimento della piena di riferimento ‘duecentennale’, e in molti tratti neppure per piene con tempi di ritorno di 30 o 50 anni".

f.d.