Germano Nicolini morto, il figlio Fausto. "Da Mattarella l'ultima gioia"

Oggi in forma strettamente privata l’addio al comandante Diavolo, morto a quasi 101 anni nella sua casa di Correggio. "Mi ha insegnato a non odiare nessuno"

Germano Nicolini, il comandante Diavolo, aveva quasi 101 anni

Germano Nicolini, il comandante Diavolo, aveva quasi 101 anni

Reggio Emilia, 26 ottobre 2020 - Avrebbe voluto un addio pubblico, Germano Nicolini: non in pompa magna ma con gli amici e le persone care. Era però consapevole che, a causa dell’emergenza Covid, non sarebbe stato possibile. I funerali di Germano Nicolini – come evidenziato dagli avvisi funebri affissi dall’agenzia Cabassi – si svolgono oggi in forma strettamente privata. E si dispensa dalle visite: si vogliono evitare possibili assembramenti di persone. Germano Nicolini lascia nel lutto il figlio Fausto, la nuora Paola, i nipoti Stefano e Francesca, altri parenti. Le sue spoglie riposeranno accanto alle tombe della moglie e dell’amata figlia. 

Intervista di Mike Scullin

«Mio papà ha ricevuto un’onorificenza dal presidente Mattarella venti giorni fa. Lo aveva nominato cavaliere della Repubblica, è lui è rimasto molto contento. Aveva una grandissima stima di Mattarella». È stato l’ultimo dei tanti riconoscimenti ricevuti da Germano Nicolini, il comandante partigiano Diavolo dopo la sentenza di revisione di 25 anni fa, che lo scagionava dall’accusa di aver ucciso don Pessina per cui era stato condannato ingiustamente a 22 anni di carcere nel dopoguerra, quand’era giovane sindaco Pci di Correggio. Diciannove giorni da cavaliere, fino alla perdita di conoscenza e alla morte, sabato sera. A raccontare dell’onorificenza, ieri, il figlio Fausto, medico pediatra, già direttore generale dell’ospedale e dell’Usl reggiana da poco in pensione, un ruolo fondamentale il suo nel percorso giudiziario che portó la giustizia a riconoscere l’innocenza del padre e a restituirgli i diritti civili perduti.

Dottor Nicolini, a causa del Covid non saranno possibili funerali pubblici.  «È così. Vogliamo evitare assembramenti. Mio padre avrebbe ambito a un funerale come vogliono gli anziani. Non in pompa magna, ma gli sarebbe piaciuto se avessimo allestito una camera mortuaria con le foto dei suoi riferimenti politici: Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Ha capito che il funerale non sarebbe stato così».

Suo padre aveva detto che il Covid è peggio della guerra, che lui aveva vissuto combattendo nella Resistenza. «Lo diceva perché in guerra il nemico lui e i suoi compagni lo potevano vedere, qui invece non lo vedi e puoi difenderti fino a un certo punto. Anche qui vedi bollettini, morti tutti i giorni, il Covid ha molto della guerra ma Io penso sia un’altra cosa».

Il Diavolo aveva avuto problemi di cuore. Il Covid non c’entra? «No. Già l’anno scorso c’era stato un ricovero in ospedale con uno scompenso cardiaco. Si salvò e fu dimesso. A 99 anni. Si erano stupiti. Abbiamo dialogato fino agli ultimi tre quattro giorni, rispondeva tranquillamente poi era sempre più assopito. Non è mai stato agitato. Si è proprio spento».

Qual è l’eredità morale che le ha lasciato suo padre? «Mi ha insegnato, pur nella vicenda tragica che gli è capitata, che non si deve mai categorizzare in modo assoluto. Mai detto che tutti i carabinieri, la Chiesa erano contro di lui. Diceva quel carabiniere, quel vescovo, quel segretario di partito. Aveva fiducia nella magistratura, tutti gli dicevano che non si poteva fare la revisione ma lui non si è mai arreso».

È vero che Togliatti evitò l’incontro con sua madre Viarda? «Lei, temendo che fosse trasferito al carcere di massima sicurezza di Porto Longone, andò a Roma a chiedergli aiuto. Lui la fece restare per ore in attesa e non la ricevette perchè aveva un altro impegno, è uscito dallo studio con Nilde Iotti».

E suo padre finì nel carcere degli ergastolani? «No. Uscendo dalla sede del partito mia madre incontró un onorevole Dc, Bartole, che era stato suo direttore alla Recordati di Correggio dove aveva lavorato. Non sapeva nulla, si adoperò evitando quel trasferimento».

Lei fu concepito quando suo padre venne scarcerato per errore e volle rientrare in prigione anzichè fuggire in Cecoslovacchia come gli offriva il Pci. Questo l’ha segnata? «Ha patito molto di più mia sorella Riccarda che era nata da poco quando fu arrestato la prima volta. Dieci anni senza di lui, lo visitava in carcere, la cattiveria di qualche amico, qualche suora. Lei ha sofferto molto».

La vostra esperienza terribile poteva spingervi a odiare. «Al contrario. Ci ha insegnato a non odiare nessuno. Non mi ha mai detto chi erano i veri colpevoli perché, diceva, questa è una voce di paese. Questa è stata una grande fortuna perché mi ha consentito l’amicizia con Dario Gaiti. Se mio padre mi avesse indotto a odiare non saremmo stati amici».

Dario Gaiti. Aveva lo stesso nome del nonno, ucciso dai fascisti insieme a don Pasquino Borghi. Convinse il papà ad andare in procura a raccontare il delitto. «Persone con l’onesta intellettuale di convincere un padre a confessare non ne abbiamo incontrare tante. Dario ne esce come un gigante, è lui il vero eroe».

Gli anni Duemila, suo padre ha svolto il ruolo che svolge Liliana Segre. «Iniziò quasi per scherzo ma poi lo chiamavano da ogni parte. Ha girato tanto. Parlava per ore della Costituente, gli studenti lo ascoltavano in silenzio. Poi presero a venire persone a casa sua. Ricordo che vennero anche i metalmeccanici Cisl della Lombardia, gli hanno lasciato un quadro. I metalmeccanici Cisl!».