"Gigante buono, non ti abbiamo difeso"

Il ricordo di Thabet Mohamed Ali del suo insegnante

"Gigante buono, non ti abbiamo difeso"

"Gigante buono, non ti abbiamo difeso"

Un gigante buono. Questo era Thabet Mohamed Ali. Conoscevo la sua faccia, il suo nasone e il suo sorriso, la sua voce profonda e il suo portamento goffo. Era stato mio alunno nella scuola di italiano del Ceis. Due pomeriggi a settimana si sedeva in via Codro e con qualche coetaneo provava ad imparare. Era sempre il primo e quando parcheggiavo lo vedevo già oltre il cancello, perché era altissimo e – anche se la puntualità non interessa molto a quei ragazzi – lui c’era sempre, sempre in orario. Mi salutava, aprivo l’aula e mi diceva dov’erano gli altri. Uno a lavoro, uno in centro, uno in stazione ( Io segnavo sul registro quelli che lui mi preannunciava assenti, perché del gigante mi potevo fidare. In classe faceva una fatica tremenda. Avevo pochi dubbi: Thabet o non era potuto andare a scuola, oppure aveva qualche disturbo dell’apprendimento. Se altri avevano delle basi, per lui era tabula rasa. In sette mesi non sono riuscito ad insegnargli a leggere e così, quando eravamo soli scrivevo sulla lavagna l’alfabeto. Ripetevamo le lettere, al massimo le sillabe.

Mentre i compagni crescevano, lui proprio non ce la faceva. Ma non se ne aveva a male, anzi era il primo a riderne con i compagni. Quindi andavamo avanti, leggevamo e scrivevamo le prime parole, abbozzavamo frasi, fingevamo dialoghi. Thabet ci seguiva. Se nello scritto era un disastro, nell’orale era tra i migliori perché aveva più voglia di comunicare di tutti. Voleva capire i significati delle parole, gli piaceva raccontare del suo paese ma anche ascoltare del nostro. Certe cose e certe frasi lo facevano ridere. Era la nostra mascotte, questo gigante sorridente che non azzeccava una risposta ma non si arrendeva mai e sapeva perfino tradurmi i dialoghi dei ragazzi, per coinvolgermi.

Ci fidavamo di lui. Finita la lezione andavano via tutti insieme verso chissà dove, scherzando spesso e volentieri proprio di Thabet, quel tipo buffo. Mai in quella classe, dove il problema è distinguere una “a” da una “e”, avrei pensato che il gigante potesse finire in un certo modo. Non ci parlavo dal 23 febbraio 2022, il mio ultimo giorno al Ceis, quando per lasciarmi un ricordo ha scritto insieme agli altri il suo nome sul tovagliolo che ho appeso in camera. Non sapevo quali strade avesse preso la sua vita, c’è un buco di 15 mesi tra quel dolce saluto e il finale tremendo di lunedì.

Ho letto che con la maggiore età ha dovuto abbandonare la comunità, che era costretto a vivere per strada e che non aveva precedenti di spaccio. Non so cosa possa essere successo, ma lunedì la sua vita è naufragata nei giri sbagliati di una città, un Paese e un mondo che non hanno saputo difenderlo. Nemmeno io come insegnante di italiano. Perché non sempre sono i migliori ad andarsene per primi, quasi sempre lo fanno i più deboli e indifesi. Thabet era uno di loro, non ha saputo proteggersi. La fortuna di uno Stato che ti insegna una lingua, ti cura e ti inserisce nella società si riduce a quello: ti difende, ti insegna a difenderti. Con lui non ci è riuscito nessuno e adesso giace lì, al binario 1. Nessun treno passerà per lui. La speranza è che in quel punto, così pubblico ed esposto, possa servire da monito: se le persone sono lasciate a sé stesse, perfino il gigante buono può finire ammazzato.