Processo Aemilia, il pentito Vincenzo Marino: "L’assessore non firma? Uccidiamolo"

Il racconto choc del pentito al processo alla ’ndrangheta

La deposizione di Marino in aula (foto Benedetta Salsi)

La deposizione di Marino in aula (foto Benedetta Salsi)

Reggrio Emilia, 17 gennaio 2018 - «L’assessore non mette la firma sul piano regolatore? Che problema c’è? Lo ammazziamo e ne mettiamo un altro». Quale assessore? «Non so, forse di Reggio, forse dei paesi vicini... ». Più della sceneggiatura di una fiction, l’udienza di ieri del processo Aemilia (il primo grado è in corso a Reggio da quasi due anni) ha raccontato che cosa, nel concreto, significassero i tentacoli della ’ndrangheta sull’Emilia.

E così, tra parole masticate in dialetto calabrese stretto, tanti ‘non ricordo’, ma pochi peli sulla lingua, ieri il pentito crotonese Vincenzo Marino ha dipinto a tinte fosche l’escalation della cosca Grande Aracri al nord, nei primi anni Duemilia. Prima che lui, nel 2007, iniziasse a parlare con la magistratura.

«Reggio Emilia? È di Nicola, non si tocca. E lui era come un giocatore di serie A... Ma di quelli veri, aveva un cervello come dieci. Dal 2000 al 2006 con i soldi che sono entrati dal nord, la cosca Grande Aracri poteva dare fastidio al Pil italiano. I soldi scendevano nei camion come balle... ha presente le balle di fieno? Per questo gli volevamo tanto bene a Nicolino...».

Marino, 42 anni da Crotone, ex ‘sgarrista di sangue’ dei clan Vrenna-Bonaventura entrato in attività ancora minorenne, era poi passato sotto l’ala dei Grande Aracri all’epoca delle guerre tra clan. Un collaboratore di giustizia ritenuto «attendibile» da diverse procure, tanto da essersi guadagnato gli arresti domiciliari nonostante il suo curriculum. «Io? Sono stato condannato per tutto il codice penale, signor presidente. Tutto tranne la prostituzione: mafia, narcotraffico, omicidi, riciclaggio... Ero nella famiglia Bonaventura, poi a parte. Sono pure parente di Nicolino Grande Aracri».

In videoconferenza da una località protetta, girato di schiena, al processo per mafia più grande che si sia mai celebrato in questa regione, ieri ha snocciolato fatti inquietanti, piani di omicidi, giri di droga e di soldi, pur senza fornire alcun dettaglio. Lo fa nelle stesse ore in cui le sue parole sono al vaglio delle procure di mezza Italia dopo le rivelazioni che hanno portato agli arresti dell’operazione Stige, sui rifiuti tossici dell’Ilva (gli stessi su cui avrebbe messo le mani la ’ndrangheta) e altri residui ospedalieri interrati vicino a una scuola di Crotone. Stavolta, però, si parla della bella Emilia. Quella che faceva gola a troppi.

«Io ero il ministro della difesa della ’ndrangheta. Mi sedevo ai tavoli e decidevo la vita e la morte delle persone, dovevano mantenere i rapporti con le famiglie». E proprio per questo, «nel 2003 ero salito a Gualtieri per prendere una macchina blindata. C’era un giornalista che dava fastidio ad Antonio Muto... per una manifestazione sui camion... E dovevamo sistemare questo giornalista se ancora gli dava fastidio».

Le mani della cosca Grande Aracri arrivavano dappertutto. «C’era una ndrina a Reggio, un altro corpo a Rimini, Riccione...Scarface... Poi quello ce l’hanno chiuso dopo l’omicidio di Cervia. In un’azienda a Ferrara volevamo mettere una bomba». I soldi? «Li prendevamo anche dalla droga di Rimini. Altri da appalti pubblici... Quando ho iniziato a collaborare avevo appartamenti e terreni fino a Milano. Perché gli immobili si conservano. Poi passa il tempo e ci sono i soldi. E le cose le sapevo perché ovunque c’era Grande Aracri c’ero io. Eravamo a casa nostra. Compravamo un terreno se l’assessore comunale ci diceva che dopo tre anni sarebbe diventato edificabile. Noi il futuro lo prevedevamo e a volte lo decidevamo».