Discoteche Rimini, il gestore dell'Altromondo: "Resistiamo, ma la pista non tira più"

Enrico Galli spiega il perché: vanno solo i locali in spiaggia e i grandi festival di richiamo

Enrico Galli, gestore dell'Altromondo Studios

Enrico Galli, gestore dell'Altromondo Studios

Rimini, 2 settembre 2019 - Restare in pista per oltre mezzo secolo, di questi tempi, non è solo un’impresa: è un miracolo. Perché in Italia la lista delle discoteche storiche che hanno chiuso supera, di gran lunga, quelle che resistono. Una di queste è l’Altromondo di Rimini. Aperto nel 1967, da allora non salta una stagione. «Ma tante volte ci chiediamo ancora: chi ce lo fa fare? Per mandare avanti una discoteca oggi bisogna essere un po’ folli». E innamorati del proprio lavoro, come lo è Enrico Galli, 46 anni, che all’Altromondo ci è praticamente nato, cresciuto e gestisce il locale insieme alla sorella e agli storici soci della famiglia Bevitori.

I social ci restituiscono sempre più spesso immagini di tanti ex templi della notte che cadono a pezzi, oppure abbattuti per far posto a case e supermercati. A Riccione ha chiuso il Cocoricò, a Rimini il Paradiso è destinato a diventare un hotel. È davvero finita l’epoca per le discoteche? «È finito il mondo del divertimento a cui appartenevano tanti locali storici. Negli anni ’80 e ’90 le discoteche erano il punto di riferimento per chi si voleva divertire. Oggi non è più così. Ci sono i locali in spiaggia, gli streetbar, e poi i grandi festival dove si va a ballare. C’è un’offerta molto diversa, perché è cambiata la domanda da parte dei giovani».

Per Linus, direttore di Radio Deejay, una delle cause del declino delle disco va cercata nei prezzi. Per inseguire il pubblico, i locali hanno abbassato troppo i prezzi perdendo così in qualità. È d’accordo? «Nella Riviera romagnola in realtà i turisti hanno sempre pagato un prezzo importante, la difficoltà semmai si poneva con i residenti. Ma non è che all’estero l’ingresso in discoteca sia molto più alto che da noi. Fa eccezione Ibiza, dove in generale l’entrata nei locali costa parecchio, ma ti danno anche un servizio diverso. A Londra ci sono club per tutte le tasche. Torno al discorso di prima: le disco non hanno più lo stesso appeal degli anni d’oro perché oggi si vive la notte in maniera diversa».

Quanto hanno influito sulla gestione dei locali i costi per le misure di sicurezza, diventati sempre più elevati?  «Molto. Negli anni ‘80 e ’90 le spese erano largamente inferiori. Oggi noi gestori abbiamo sempre più responsabilità, anche troppe forse... E rischiamo provvedimenti anche quando non abbiamo colpe dirette. Certe leggi, come l’articolo 100 del Tulps, andrebbero riviste. Per stare dalla parte del sicuro, all’Altromondo metto sempre qualche addetto alla sicurezza in più del necessario».

La colpa è anche dei ragazzi? Sono più problematici, più difficili da gestire? «Sicuramente l’età media di chi frequenta i locali si è abbassata, e questo porta delle difficoltà. Certe esperienze che si facevano a 20 anni, oggi i giovani le fanno a 14, 15, con le conseguenze del caso».

Girano più alcol e droga oggi? «I ragazzi bevono soprattutto prima di andare in discoteca. Fanno il pieno nei supermarket, a casa, in hotel, poi magari crollano in pista mezzora dopo essere entrati e le responsabilità vengono addossano al locale... In Italia il mondo della notte purtroppo è demonizzato. Per questo dico che andrebbero riscritte le regole. Noi gestori da anni chiediamo la possibilità di fare selezione all’ingresso, insomma di aver la facoltà di decidere chi può entrare e chi no... Questo eviterebbe tanti problemi».

Le discoteche italiane sono destinate all’estinzione? «Chi lavora bene, offre qualità artistica e nei servizi, riuscirà a sopravvivere. Chi non investe e chi improvvisa non resiste sul mercato. Però in Italia dovremmo fare un cambio di passo, anche culturale. A Ibiza l’industria della notte è rispettata e valorizzata, perché crea lavoro ed economia. Da noi invece spesso e volentieri si parla delle discoteche solo per le tragedie che accadono. Non dico che non abbiamo mai la colpa, ma non è che l’abbiamo sempre».