Coronavirus Ancona. "Io, infermiere in prima linea. Si rischia il collasso"

La testimonianza di un operatore di Torrette che racconta l’abnegazione e il sacrificio di tanti professionisti: "Ogni tanto ci dobbiamo fermare perché c’è il pericolo di fare errori"

Turni massacranti e sistemi di protezione per tutti i professionisti della sanità

Turni massacranti e sistemi di protezione per tutti i professionisti della sanità

Ancona, 10 marzo 2020 - Cosa significa lavorare in prima linea all’epoca del Coronavirus, tra paura e sacrifici e una gestione complessa delle emergenze. Cosa significa, inoltre, farlo nel reparto maggiormente sottoposto ad un lavoro durissimo e delicato come il pronto soccorso. L’aggressione provocata dall’arrivo di un’epidemia pericolosa ha cambiato le abitudini e anche i percorsi professionali. La testimonianza di un infermiere è decisiva in questo senso.

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Daniele (il nome è di fantasia per non renderlo riconoscibile), infermiere a Torrette, come è cambiata l’attività nel suo reparto? "In dieci giorni il reparto è stato ribaltato come un calzino, le aree divise in due e le modalità di lavoro completamente stravolte. Nessuno si aspettava una cosa del genere".

Ci spiega meglio il concetto della divisione del reparto? "Il pronto soccorso ‘ordinario’, quello che si occupa di tutti gli altri casi, resta al suo posto, ma quel tipo di attività si è notevolmente ristretta. In contemporanea è stato adottato un percorso ‘Coronavirus’ che parte dalla ‘camera calda’ (dove arrivano le ambulanze coi pazienti, ndr) e arriva all’area box, ora trasformata nella degenza per i pazienti sospetti da Covid-19".

A livello pratico cos’è cambiato nel lavoro quotidiano dei turni? "Tutto, specie se si è destinati alla cosiddetta ‘Zona rossa’ dove l’attività è diversa da quella ordinaria".

Quali le differenze? "Il modo di operare innanzitutto. Essendo un’area dove ci sono pazienti sospetti positivi Covid-19 il personale deve lavorare completamente protetto, dai capelli ai piedi. Siamo coperti da casco, mascherine, guanti, tute e via discorrendo e le assicuro che lavorare così non è semplice. Ti si annebbia la vista dal caldo, dal sudore. Ogni tot ore è necessario uscire dall’area per riprendere fiato, altrimenti si rischia il collasso. Ogni manovra di vestizione deve essere curata nel minimo dettaglio, altrimenti può essere pericoloso e il materiale sempre cambiato".

Pensare di fare un turno di otto ore senza soste in queste condizioni è impensabile? "Impossibile, ne va della qualità del servizio. Rischiamo di commettere errori. Io stesso mi accorgo dopo due-tre ore che manca la lucidità anche per registrare un paziente nel computer".

L’educazione sulle modalità delle cure ha funzionato? "Pare di no, purtroppo. Qui continuano ad arrivare pazienti giovani che accusano uno stato febbrile e temono di essere positivi al Coronavirus. Queste persone dovrebbero restare a casa ed evitare assolutamente l’ospedale e il pronto soccorso. I pazienti positivi possono essere curati, se non in presenza di casi clinici gravi, anche a casa. Purtroppo la gente se ne infischia delle regole e delle raccomandazioni".

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