
La conferenza stampa di ieri in questura
Le armi per intimidire, minorenni e donne per spacciare droga. Ne entravano almeno tre chili puri al mese nelle Marche, per un guadagno di oltre 60mila euro che in un anno fanno quasi un miliardo di euro. Fiumi di denaro e di cocaina, eroina e hashish stroncati ieri al culmine di un’operazione della Squadra mobile di Ascoli Piceno, in collaborazione con la Sisco di Ancona (la sezione investigativa del servizio centrale operativo) e coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Ancona (la Dda) che ha portato a 14 custodie cautelari di cui 12 in carcere e 2 ai domiciliari (tutte eseguite in provincia di Ascoli Piceno e Teramo) e a 13 indagati a piede libero.
La base operativa era a Porto D’Ascoli, nella casa abusiva di un boss legato in passato alla cosca di ‘ndrangheta calabrese Vrenna-Corigliano-Bonaventura, Vicenzo Marino, 50 anni. Per accentuare la sua figura di potere aveva abbellito l’abitazione, senza nessuna concessione edilizia rilasciata, con due statue di leoni e giganteschi mosaici a simboleggiare chi comandava. Marino, chiamato "zio" dai suoi sodali e che ha dato nome all’operazione ribattezzata "Grandsons 2" (nipoti in inglese), è un ex collaboratore di giustizia ed è tra i 14 arrestati all’alba di ieri anche se si trovava già in carcere per altri fatti. Al gruppo di cui faceva parte è contestata l’associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e illecita detenzione di armi comuni da sparo e da guerra. Ne aveva diverse tra pistole a tamburo (due), un fucile a canne mozze per renderlo più potente e perfino una bomba a mano in uso all’Esercito ma priva di carica esplosiva trovata nel giardino di casa del boss grazie al fiuto dei cani della polizia durante la perquisizione.
Il gruppo criminale avrebbe operato tra le Marche, la zona costiera di San Benedetto e l’Abruzzo spostandosi anche in altre regioni d’Italia. "Ammazza, uccidi e spara se reagiscono" sarebbe stato l’ordine di Marino impartito ai suoi uomini. L’operazione ieri è stata illustrata da polizia e Procura. "C’era una suddivisione dei ruoli al loro interno – ha spiegato la procuratrice distrettuale Monica Garulli – e la base logistica era l’appartamento ad utilizzo del calabrese e dei suoi familiari. E’ riuscito a riproporre metodi di intimidazione violenti tipici delle cosche, nel nostro territorio, unendosi agli albanesi. Un fattore allarmante. Il sodalizio criminale aveva una matrice familiare con legami di parentela, anche di donne (5 quelle arrestate, ndr) e dopo i primi arresti ha proseguito l’attività dalle carceri con apparecchi telefonici e conversazioni indirizzate per dare le direttive anche da lì. L’indagine è durata un anno e mezzo e ha fatto emergere tratti di pericolosità". Il dirigente della squadra mobile di Ascoli, Giovanni Fiorin, ha definito il boss "un capo abituato alla violenza, si vantava della sua storia passata come ‘ndranghetista, decideva l’acquisto, il trasporto e il taglio della droga, fuori casa aveva un impianto di videosorveglianza sofisticato e quando arrivava la droga metteva due sodali di fuori per impedire a polizia o rivali di entrare". L’indagine è partita da uno spunto investigativo della Dda di Catanzaro. "Le armi erano funzionanti, pronte all’utilizzo – ha osservato Nicolò Battisti, dirigente Sisco – un fattore nuovo per la nostra regione. Nella fase investigativa non sono state utilizzate ma servivano per intimidire. Il ruolo delle donne era quello di confezionare e distribuire la droga". Impiegati anche dei minorenni come pony express. Il gruppo voleva allargarsi con piantagioni di marijuana in Spagna.