Andrea
Bonzi
Il termine ’partigiano’, in questo presente in cui la semplificazione è la via più facile (ma spesso si rivela cattiva consigliera), viene considerato più ’di sinistra’ rispetto a ’patriota’ e ’patria’.
Quelli nel mirino sono termini che, negli ultimi anni, il centrodestra guidato da Giorgia Meloni e Matteo Salvini ha fatto propri. È successo in campagna elettorale (con Fratelli d’Italia a caccia di ‘nuovi patrioti’), per giustificare la difesa dei confini nostrani (soprattutto dall’ingresso dei migranti) e sottolineare la vicinanza agli italiani.
Ma se si mette da parte un momento la politica – e quell’ansia del ‘politicamente corretto’ che, di recente, ha fatto perdere la brocca ai censori che hanno eliminato parole come ‘brutto’ e ‘grasso’ dai libri per ragazzi di Roald Dahl -, è la Storia a spiegarci i limiti dell’operazione. Il termine ’patriota’ (mutuato dal francese patriote) fu largamente utilizzato nel Risorgimento. A partire dal patriota cosmopolita per eccellenza, Giuseppe Garibaldi (per inciso: gli eroi del XIX secolo, come lui, manterranno la dizione ‘patriota’ anche sui cartelli bolognesi).
La Resistenza, non a caso, viene definita Secondo Risorgimento. E dunque per questo anche la parola ‘patriota’ rientra nel vocabolario della Resistenza esattamente come la parola ’partigiano’. Una distinzione, in realtà, c’è. Il partigiano è colui che ha combattuto il fascismo con le armi, il patriota lo ha fatto aiutando in altri modi: inoltrando informazioni, dando ospitalità ai rifugiati, cedendo viveri e medicine a chi resisteva. Ma sono tutti antifascisti. Di più: i partigiani comunisti combattevano nei Gap, ovvero ’Gruppi di azione patriottica’, formati dalle Brigate Garibaldi.
Tornando alla polemica, se si rinuncia tout court al termine ’patriota’, si rischia di consegnarlo a una parte politica. E dunque questo, per quella che vuol essere ’la città più progressista d’Italia’, può risultare un bel boomerang.