GABRIELE PAPI
Cronaca

Autunno, è tempo di indossare la ‘capparella’

Nel mondo contadino era il capo d’abbigliamento più costoso e spesso passava di padre in figlio. Pura lana e bavero di coniglio

Autunno, è tempo di indossare la ‘capparella’

Pomeriggio d’autunno sotto i venti di mare: se gli ordini del vento girano in gelida bora si capisce perché i nostri vecchi indossavano l’antica e confortevole capparella di buona lana. Capparella viene da cappa, nel senso di mantello, senza cappuccio. Abbigliamento un tempo solo maschile: ma amiche che seguono la moda femminile ci segnalano per l’inverno che viene avvolgenti cappottoni ‘a ruota’. Proprio com’era la classica capparella (‘caparèla’ in dialetto): ovvero un mantello che arrivava come lunghezza sino al ginocchio e aveva come chiusura un fermaglio di metallo sotto al mento in modo da consentire, a capparella chiusa, libertà di movimento per le braccia. Per il mondo contadino era il capo d’abbigliamento più costoso, ma se ben confezionato poteva essere trasmesso da padre in figlio.

Un paragone per avere un’idea dei costi negli anni trenta del secolo scorso: quando la canzone di successo era "Se potessi avere mille lire al mese", poiché lo stipendio mensile medio era di 400500lire.

Ebbene: una buona capparella costava 150 lire, poiché servivano almeno 5 metri di buon panno. Volendo c’erano capparelle più economiche in misto lanacotone: tuttavia chi affrontava quella spesa preferiva in genere il conforto e la durata della pura lana e in più, talvolta, il bavero di pelo di coniglio. Nella buona stagione la capparella era conservata con cura dalle donne di casa, cosparsa di spighe di lavanda essicata antidoto alle voraci tarme.

Una ricordanza: quella di Dante Stella, classe 1939,che mezzo secolo fa aprì a Cesena ‘Dante’S’ prima boutique per uomini, figlio d’arte: suo padre Dino Stella fu sarto rinomato.

Dante ha vividi ricordi d’infanzia: quando suo babbo disegnava col gesso sul suo tavolone una ruota che guidasse il taglio del panno. Taglio che doveva essere sapiente, perché la capparella doveva cadere “a campana” per essere poi ben ammantellata.

Il colore del panno si manteneva sul grigio chiaro per i più giovani e grigio scuro per i più anziani. Nel suo pedigree secolare la capparella diede origine anche alla famosa, un tempo,”caparlàza”: uno scherzo di gusto pesante oppure e peggio una vendetta.

Andava così: al malcapitato atteso al varco tra il buio dei portici veniva rovesciato il mantello sulla testa in modo da non poter riconoscere gli assalitori. E poi, giù botte e ‘savarnate’.

Non a caso la capparella fu abbigliamento caro ai briganti: le tasche foderate del mantello potevano celare un arsenale di armi da taglio e da fuoco.

Un manutengolo, un complice della banda del Passatore fu beccato dopo aver acquistato con scudi sonanti vari “bracci” di panno per capparella: il “braccio”, corrispondente a circa 0,70 metri, era la misura del tempo. Quel tipo aveva troppo denaro in tasca per essere solo un bracciante.

Venendo infine a storie non malavitose, l’unico inconveniente della capparella era quando l’impetuoso vento del nord prendeva di petto un mantello non ben avvolto, trasformando il viandante in una sorta di pipistrello ambulante.

Con conseguenti sfottò al suo passaggio davanti alle osterie: ‘sa sìt, un nòtal?’ (cosa sei, un pipistrello?). Le vituperose risposte di quel viandante sono irriferibili.