
di Maddalena De Franchis
Marco Alberti, a venti giorni dall’inizio del suo incarico da ambasciatore d’Italia in Kazakistan e Kirghizistan, quali sono le prime impressioni?
"La prima impressione, l’ho detto a tutti, è stata quella di essere atterrato in un Paese che, negli ultimi venti giorni, è diventato di colpo molto più rilevante che in passato. Il motivo di questa improvvisa centralità è, naturalmente, la tensione in Afghanistan, la preoccupazione per i possibili effetti destabilizzanti della crisi. Il Kazakistan non confina con l’Afghanistan, ma il suo ruolo è decisivo".
In che senso?
"Il Kazakistan ha un ruolo di leadership nell’area e lo sta giocando con responsabilità e pragmatismo. Se, da un lato, c’è una logica preoccupazione, dall’altro c’è la consapevolezza di doversi impegnare per garantire pace e stabilità. Non a caso il Paese si è offerto di ospitare le agenzie Onu che hanno lasciato Kabul, sta partecipando a operazioni di contenimento e ha lanciato un appello alla comunità internazionale affinché l’Afghanistan non sia abbandonato".
Che paese è il Kazakistan?
"È una terra di passaggio, che da sempre collega Occidente e Oriente, in cui oggi vive un popolo formato da oltre 140 etnie diverse. Qui si fondono culture, sensibilità e tradizioni millenarie".
Come descrive la capitale, Nur-Sultan?
"Alcune strade riflettono la modernità dell’Occidente; in altre, invece, riaffiora un’anima orientale profonda. Non lontano dai luoghi in cui grandi aziende investono miliardi di dollari in grandi progetti, si trovano antichi resti che ricordano il passaggio di Gengis Khan e Tamerlano. Ecco perché il Kazakistan assomiglia all’Italia: per secoli anche noi siamo stati ‘terra di passaggio’ e ciò ha prodotto una ricchezza straordinaria".
Nel suo recente libro Open diplomacy. Diplomazia economica aumentata al tempo del Covid-19, lei si sofferma sulle sfide che la diplomazia contemporanea ha dovuto affrontare a seguito dell’ondata pandemica - e non solo. Quale lezione possiamo trarne per il futuro?
"La pandemia è stata un acceleratore di particelle della realtà. Come un acceleratore viene usato per studiare il cuore dell’atomo, così il Covid ha offerto una lente inaspettata per osservare il mondo di oggi, i punti di forza e debolezza, ma anche la capacità di rinnovarsi velocemente. Il paradosso, citato nel libro, è che l’evento più globale al quale abbiamo assistito, il Covid-19, rischia di mettere in pericolo la globalizzazione stessa. Se vogliamo salvarla, dobbiamo pensare a un modello più collaborativo, non più centrato solo sul profitto, ma orientato alla creazione di valore condiviso".
Suo padre Arturo si è sempre impegnato, oltre che nella professione di stimato pediatra, nelle missioni internazionali e nella solidarietà. Cos’ha imparato da lui?
"Che occorre incontrare le persone partendo dai loro bisogni, non dai nostri progetti. Mio padre ha fatto molte cose con umiltà e uno spirito di gratuità molto raro. Tuttavia, ne avrebbe realizzate meno se non avesse avuto vicino mia madre, che lo ha accompagnato, spesso, in silenzio. Dico questo innanzitutto a me stesso, perché anch’io ho chiesto a mia moglie di rinunciare a tanto per accompagnarmi: è bene ricordarsi che spesso le proprie scelte segnano anche la vita degli altri".
La sua carriera la tiene lontana da Cesena ormai da anni. Cosa le manca?
"Quando uno viaggia per lavoro non vive più nella sua città, ma si accorge che la città vive in lui. Io ho casa a Cesena e non ho mai spostato la residenza. Ho famiglia e amici, ci torno ogni volta che posso. I miei tre figli hanno nomi spagnoli, vivono in Kazakistan, frequentano scuole inglesi e la loro mamma - mia moglie - è argentina di origine libanese. Ma tutti e tre sono nati al ‘Bufalini’, per loro andare a Cesena è sempre una festa. Spesso mi chiedono se ho nostalgia di casa. La parola ‘nostalgia’ unisce i termini greci nóstos (ritorno a casa) e àlgos (dolore). Questo dolore non lo sento: ‘sentirsi a casa’, per me, non è solo ‘stare in un luogo’ ma, in fondo, fare ciò che si ama".